Vescovi di tutto il mondo arabo a Roma. Un sinodo in tempo di guerra
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La Conferenza episcopale dei vescovi latini delle Regioni arabe riunita a Roma. Parla César Essayan, vicario apostolico di Beirut, il cui paese è coinvolto nel conflitto.
Arriveranno da varie nazioni. Dalla Terra Santa al Libano, dalla Siria all’Iraq. E ancora: dall'Arabia del Nord (Arabia Saudita, Kuwait, Bahrein, Qatar) all'Arabia del Sud (Emirati Arabi, Oman, Yemen), Egitto, Gibuti e Somalia. Sono i patriarchi e i vescovi della Celra, la Conferenza episcopale dei vescovi latini delle Regioni arabe. Si sono dati appuntamento a Roma; l’Italia è, infatti, l’unica nazione raggiungibile da ogni paese. Si riuniranno dal 15 al 17 gennaio e all’ordine del giorno un solo argomento: il cammino sinodale. Verrà fatta anche una panoramica sulla situazione sociale e pastorale di ogni singolo paese, senza trascurare il drammatico momento che stanno vivendo i cristiani in Terra Santa, in modo particolare, a Gaza. Ma si parlerà pure del Libano che sta attraversando un periodo molto difficile.
Dal 2019 il Paese dei Cedri sta vivendo una profonda crisi economica e finanziaria, oltre che sociale. La lira libanese, agganciata al dollaro, si è svalutata del 200% del suo valore e l’inflazione è ormai fuori controllo. E ora iniziano a soffiare venti di guerra. In particolare, dopo l'assassinio da parte di Israele del numero due di Hamas, Saleh Arouri e di altri sei quadri dell'organizzazione fondamentalista, a Mashrafieh, roccaforte sciita, alla periferia della capitale libanese. L'uccisione di Arouri rappresenta per Netanyahu una vittoria politica da spendere in casa, ma soprattutto un messaggio inequivocabile diretto a Hezbollah, colpito nel cuore del suo quartier generale di Beirut.
Dopo la Harb Tammuz (la guerra di luglio) del 2006, durata poco più di un mese, questo è il primo e vero scontro tra l'esercito con la Stella di Davide e il Partito di Dio libanese. In quella battaglia Israele fu costretta al ritiro, 1200 furono le vittime libanesi, in prevalenza civili, e 300 quelle israeliane, soprattutto militari. Quella guerra è diventata il simbolo della cacciata israeliana dal Libano.
Il vescovo César Essayan ofm conv., è il vicario apostolico di Beirut, diocesi alle dirette dipendenze della Santa Sede. È il vicepresidente della Celra ed ha parlato con La Nuova Bussola oltre che delle tematiche che saranno affrontate nel corso dell'assemblea dei vescovi latini delle Regioni arabe, anche dell’attuale situazione in Libano e delle conseguenze di un probabile allargamento della guerra che coinvolgerebbe oltre che al suo paese, Siria, Iraq, e naturalmente Israele.
Eccellenza, quali i rischi di un'estensione del conflitto in Libano?
Il pericolo di una guerra è sempre alle porte. Ma sono convinto che non si arriverà ad uno scontro diretto tra Hezbollah e l’esercito israeliano. Nel sud del Libano sono presenti vari gruppi e non si sa chi realmente lanci i razzi contro Israele.
Dunque, a suo parere, agiscono altri gruppi armati nel sud del Libano?
È molto probabile. Ci sono i siriani, i palestinesi e gli Hezbollah.
L’esercito israeliano afferma di aver colpito molti centri operativi del gruppo fondamentalista sciita legato agli iraniani.
L’esercito israeliano quando lancia i missili non va per il sottile. L’unico obiettivo è distruggere. L’artiglieria israeliana ha usato, e continua ad usare, nel corso delle sue operazioni militari, lungo il confine meridionale del Libano, munizioni contenenti fosforo bianco, provocando molti danni.
Yoav Gallant, ministro della Difesa israeliano, nega, però, che l'esercito usi il fosforo.
Non è vero. Non dice la verità. Una cristiana del Sud, incontrandomi durante le festività natalizie, mi ha detto che aveva una piantagione di ulivi. Dopo il lancio di proiettili al fosforo da parte dell'esercito israeliano è andato tutto completamente distrutto e bruciato. Gli alberi sono stati letteralmente carbonizzati dalle fiamme. «Non mi è rimasto più nulla. Non so come vivere», mi ha riferito piangendo.
Dunque, una situazione difficile?
È drammatica. Molti cristiani, ma anche i musulmani sunniti, hanno abbandonato i loro paesi nel sud del Libano cercando rifugio in altre località, alcuni iniziano ad andare all’estero. Ci sarà una migrazione di massa, come sta già avvenendo dal 2019. Le abitazioni saranno ancora una volta distrutte, le strade non più percorribili, le attività economiche si fermeranno, le scuole saranno chiuse e ci sarà un aumento esponenziale del livello di povertà.
Un Natale, dunque, triste.
Ho celebrato a Beirut la messa di Natale per un gruppo di profughi fuggito dai loro paesi del Sud. Erano disperati e scoraggiati.
Qualcuno rimane?
Sì. Hanno paura di lasciare la casa incustodita. C’è il pericolo che venga occupata definitivamente dai siriani. È un modo per cacciare i libanesi dalla loro terra.
In Libano ci sono molti profughi sunniti.
Sono quasi 2milioni e mezzo. L’America e l’Europa stanno finanziando con una pioggia di denaro le Ong straniere presenti in Libano, così che i profughi non ritornino nel loro paese. In questo modo stanno creando dei seri problemi ai libanesi.
Non è ancora iniziata la ricostruzione in Siria?
Dove c’è stata la guerra la ricostruzione non ci sarà. E lo stesso sarà per Gaza. Stanno creando delle popolazioni nomadi, sradicate dalla loro terra, dalle loro tradizioni. La Siria è ricca di petrolio. Ma manca la luce. È razionata. Perché? Certo, chi soffre non sono i governanti, ma la gente semplice, povera. Che tra l’altro diventa sempre più indigente.
Lei vede un futuro per il Libano, per le regioni arabe e per il Medio Oriente?
Certo. Il futuro appartiene al Signore. Gli imperi e le ideologie cadono. Non possono durare per l'eternità. Nessun potente vivrà fino alla fine del mondo. L’uomo, invece, rimarrà purché si affidi a Dio, nostro Padre. Bisogna tornare a pregare. Dio non ci abbandonerà. Non si può fare a meno di Lui.
Eccellenza, lei andrà a Roma per l'incontro della Conferenza episcopale dei vescovi latini delle Regioni arabe, perché questo incontro?
È un incontro straordinario. È il primo dopo la grande assise sinodale. Ascolteremo, infatti, la relazione di mons. Paolo Martinelli, vicario apostolico per l’Arabia meridionale, che è stato nostro rappresentante all’assemblea. È previsto un approfondito esame sui vari temi affrontati nel recente incontro. Sarà poi presa una decisione sulle modalità di applicazione nelle nostre comunità.
Come è stato vissuto il cammino sinodale nelle chiese delle regioni arabe?
È stato un percorso di discernimento, durante il quale la circolazione delle idee e il confronto sono stati la colonna portante delle nostre Chiese locali. È stato un lavoro che ci ha condotto a distinguere tra ciò che è sostanziale e che non si può abbandonare, e ciò che invece, è legato alla contemporaneità e va aggiornato.
La Chiesa sta vivendo un periodo in cui le guerre stanno coinvolgendo molti paesi.
Il sinodo è stato l'occasione per i partecipanti, provenienti da ogni parte del mondo, per confrontarsi. Nonostante le guerre i partecipanti hanno parlato di pace, ma soprattutto è stato coinvolto il popolo di Dio.
Ma sinodalità può anche essere intesa come una forma di democrazia all'interno della Chiesa.
La Chiesa è un evento dello Spirito Santo e quindi il vero protagonista del Sinodo è proprio lo Spirito Santo. È indispensabile mettersi in ascolto dello Spirito. Dobbiamo invocare lo Spirito molto più spesso e con più forza, e ascoltarlo con umiltà, camminando insieme con il Signore.