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MEDIO ORIENTE

Usa e Turchia, accordo sulla Siria. Pagheranno i curdi

Malgrado l'ammonimento ad Ankara di non approfittare del ritiro Usa dalla Siria per attaccare i curdi, il presidente Usa Trump ha raggiunto un accordo con il presidente turco Erdogan con la richiesta di una zona di sicurezza di 30 km all'interno della Siria a protezione della Turchia. A farne le spese potrebbero essere i curdi.

Esteri 16_01_2019
I presidenti turco Erdogan e americano Trump

Gli Usa si ritirano dalla Siria ma ammoniscono Ankara a non approfittarne per attaccare i curdi. «Devasteremo economicamente la Turchia se colpisce i curdi», «creeremo una zona di sicurezza» ha twittato il presidente americano Donald Trump, sottolineando che è iniziato il ritiro delle truppe americane dalla Siria.

Martedì il segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, ha detto che continuano i negoziati con tutte le parti interessate sulla proposta americana di creare una "zona di sicurezza" o "zona cuscinetto" in Siria, con l'obiettivo che la sua frontiera con la Turchia sia «sicura». «Vogliamo assicurarci che coloro che hanno combattuto al nostro fianco per distruggere lo Stato islamico beneficino della sicurezza, e che i terroristi che operano dalla Siria non saranno in grado di attaccare la Turchia», ha detto Pompeo.

Il 13 gennaio Trump aveva chiesto la creazione di una "zona di sicurezza" su una striscia di 30 chilometri di larghezza ai confini turco-siriani, senza però fornire dettagli ma esortando le forze curde a non «provocare» Ankara.
Curioso ricordare che una fascia di sicurezza di 30 chilometri al confine (in territorio siriano ma presidiata da soldati turchi) è stata a lungo chiesta negli anni scorsi da Ankara ma venne più volte rigettata proprio da Washington.
Non a caso il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha dichiarato ieri che «alcuni messaggi dell'account privato personale di Donald Trump ci hanno irritato. Poi ieri sera ne abbiamo parlato in una telefonata ed è stata una conversazione molto positiva. Ha confermato la decisione di ritirare i soldati americani dalla Siria» e la proposta di «una zona di sicurezza della profondità di oltre 30 chilometri» in Siria alla frontiera con la Turchia.

In un comunicato viene reso noto che la Turchia è pronta ad «appoggiare l'alleato» nelle operazioni di ritiro e garantisce che non permetterà che il terrorismo «tragga vantaggio dal vuoto lasciato dalla fine della missione americana». I due presidenti hanno discusso anche di una possibile "buffer zone" al confine tra Siria e Turchia e concordano sull' importanza dell'integrità territoriale del Paese. Nel comunicato si ribadisce che la Turchia non ha intenzione di colpire i curdi, ma di eliminare la minaccia terroristica, sia che venga dall'Isis che dai curdi Pyd-Ypg.

In appoggio alla causa turca è sceso in campo il leader di al-Qaeda in Siria, Abu Muhammad al Jolani, che ha detto il 14 gennaio di non esser contrario ad alcuna operazione militare turca nella Siria settentrionale contro l'ala siriana del Pkk curdo. I qaedisti siriani controllano gran parte della “sacca” di Idlib, sotto influenza turca, nel nord-ovest del paese.

Gli Stati Uniti avevano annunciato l’11 gennaio l’inizio del ritiro delle truppe dalla Siria, tre settimane dopo che Trump aveva ufficializzato l’intenzione di attuare il rimpatrio dei 2mila militari dislocati in Siria orientale al fianco delle milizie curdo-arabe aderenti alle Forze Democratiche Siriane (FDS).
Da più parti definita clamorosa e inattesa, la decisione della Casa Bianca era stata in realtà già annunciata nel 2017 ma, allora come oggi, cozzò contro le resistenze opposte dal Pentagono, che sottolineò l’esigenza di continuare a combattere l’Isis per infliggere il colpo di grazia al Califfato.
Missione oggi compiuta «al 99 per cento» come ha detto lo stesso Pompeo, poiché le FDS e gli alleati (in Siria vi sono anche truppe francesi e britanniche) sono impegnati nell’ultima offensiva contro un gruppo di villaggi vicino al confine con l'Iraq, ultima ridotta dell'Isis. «Le forze americane hanno avviato il processo di ritiro dalla Siria», ha annunciato l’11 gennaio un portavoce della Coalizione a guida Usa. «Per motivi di sicurezza, non parleremo di tempi, luoghi o movimenti di truppe». Una fonte del Pentagono ha precisato che le fasi iniziali riguardano il ritiro degli equipaggiamenti non essenziali, e non i militari.

Secondo l'Osservatorio siriano per i diritti umani (Ondus), ong con sede in Gran Bretagna vicina ai ribelli moderati che combattono il governo di Bashar Assad, «150 soldati americani hanno lasciato il Paese diretti in Iraq attraverso il valico di Fish Khabur» con una decina di mezzi blindati e diversi pezzi di artiglieria che hanno lasciato la base americana nella provincia di Al Hasaka, nel nord-est della Siria.
La presenza delle forze Usa è stata sempre definita illegale e ostile da Damasco che, diritto internazionale alla mano, ha buon gioco nell’affermare di non aver mai autorizzato Washington a schierare proprie truppe sul suolo nazionale. Inoltre, in più occasione velivoli e artiglieria statunitense hanno colpito le forze governative siriane per rallentarne l’avanzata o comprometterne le difese negli scontri contro lo Stato islamico nell’area di Deir Ezzor.

Le operazioni di ritiro dovrebbero durare almeno sei mesi secondo fonti militari sentite dal New York Times, mentre Trump aveva parlato di solo un mese e fonti vicine al Pentagono di quattro mesi. Una confusione che induce Mosca a mostrare scarsa convinzione circa le intenzioni americane: «Abbiamo l'impressione che stiano lasciando il paese per rimanervi», hanno detto dal Cremlino, anche se sul terreno si colgono i primi segnali del ritiro statunitense. Eppure, nell'enclave contesa di Manbij, nel nord della Siria a ovest dell'Eufrate, la polizia militare russa ha annunciato di aver preso posizione in aree fino a poco tempo fa presidiate da soldati americani.

Mentre gli Usa annunciavano il ritiro dalla Siria, in Italia il ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, ha reso noto che la Farnesina sta valutando «se e in che tempi» riaprire l'ambasciata italiana a Damasco. Moavero ha auspicato «prospettive più normali», ma «avere ambasciate nei Paesi resta una priorità importante» e l'obiettivo è «riaprire pienamente la nostra sede diplomatica».
Roma aveva ritirato l'ambasciatore nel 2012, quando ormai da alcuni mesi era cominciata la guerra civile, e da allora aveva congelato i rapporti politici con Damasco. Più di recente la Farnesina si era limitata a un ordinario avvicendamento dell'incaricato d'affari, anche se i rapporti tra i servizi segreti e siriani sono da tempo molto stretti soprattutto nel campo della lotta al terrorismo e dell’identificazione dei “foreign fighters” dello Stato islamico.