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COVID

Un anno di pandemia, l'anno del coniglio

Se c'è un fil rouge capace di legare in un unico giro questi 365 giorni di pandemia, lo troviamo nella: insicurezza. Questo è stato l'anno dell'insicurezza. Il futuro si è ristretto, arriva solo fino al prossimo Dpcm. Ma è l'anno in cui trionfano gli insicuri, quelli che non vedevano l'ora di trovare un pretesto per giustificare la loro paura di vivere

Editoriali 09_03_2021
Spagna, test del tampone

Ad un anno dalla pandemia. Molti tra giornalisti, letterati e politici hanno tirato una riga dopo un anno di convivenza coatta con il Signor Coronavirus. Ognuno di costoro ha individuato una cifra caratteristica di questi dodici mesi, un minimo comun denominatore che avrebbe voluto assegnare un senso a questi giorni senza senso e senza tempo vissuti come pazienti o potenziali pazienti.

Anche noi proviamo a trovare un fil rouge capace di legare in unico giro questi 365 giorni pandemici e quel filo rosso potrebbe avere un nome: incertezza. Subito ci viene in mente l’incertezza del futuro che, come un capo lavato in acqua bollente, si è ristretto. Per noi abitanti di Virulandia il futuro termina con il prossimo Dpcm. Qualche settimana dura il futuro. E, subito dopo il futuro, fa capolino la speranza e purtroppo anche lo Speranza, inteso come ministro, che, con istinti sucidi, puntualmente uccide ogni aspettativa.

L’incertezza poi si declina in tanti modi quante sono le teste degli italiani (e non solo). Come camperò passata la buriana? Il mio lavoro non sarà più lo stesso? Cambieranno davvero i rapporti sociali tra i sopravvissuti? Mio figlio quali ripercussioni psicologiche avrà dopo tanta Dad e poca scuola? I punti interrogativi si moltiplicano e alimentano l’insicurezza.

Ma forse il peggio non sta nel fatto che le insicurezze sono aumentate di numero o si sono aggravate sempre più, il peggio sta forse nel fatto che noi tutti siamo diventati più insicuri. O meglio, chi era incerto pre-covid si trova ora più esitante e chi, all’opposto, stringeva saldamente le redini della propria vita ora è ancora più deciso.

Prendiamo l’abbandono liturgico. Pare che ci sia stato un crollo delle presenze alla Messa domenicale intorno al 40%. Peggio della perdita di consensi del Movimento 5 Stelle. Molti di coloro i quali hanno disertato le panche delle chiese per paura dell’infezione non hanno disertato le corsie dei supermercati. Si dirà: «Devo pur mangiare per vivere». E il Pane eucaristico non serve appunto per questo?

Molti hanno approfittato del Covid come pretesto per fare un passo indietro anche nei rapporti umani. Niente visite ai parenti, niente partecipazioni ai funerali, niente due chiacchere con l’amico che aveva bisogno. Tutte grane che il virus per fortuna ci ha evitato. Viviamo ritirati perché la nostra stessa esistenza si è ristretta, proprio come il tempo e lo spazio in cui ormai la bolla pandemica ci ha costretto a vivere.

«Non è tanto per me, ma se mi ammalo io poi divento contagioso e posso infettare persone a me vicine anziane. E poi ci sono le sanzioni ed anche se non ci fossero dobbiamo tutti fare la nostra parte e comportarci da cittadini responsabili». Badi bene il lettore: a volte queste giustificazioni sono assai ragionevoli. Ma a volte sono pretestuose e occultano figure di ominidi – giovani o maturi – paurosi di un virus che, per la loro età e condizione fisica, è letale come l’attraversamento delle strisce pedonali in centro urbano di giorno. Molti hanno nascosto dietro il Covid la loro ontologica insicurezza, la mancanza di virilità e di audacia e il loro essere imbelli. Conseguenza ovvia: si sono allenati per una vita a trovare scuse, a mandare avanti gli altri, a scaricare le proprie responsabilità su terzi, a schivare, dissimulare, mentire, rimandare ed ora si sono schiantati contro il muro della pandemia. Ma sì, continuiamo a cancellare dall’immaginario collettivo le figure del cavaliere, dell’eroe che si sacrifica per gli altri, dell’uomo che soffre e tace e non va a lamentarsi dal terapeuta ad ogni bruscolino che gli finisce nell’occhio. Però poi non stupiamoci di quei medici che non vanno a visitare i propri pazienti perché hanno paura di contagiarsi.

Belanti e ubbidienti ora aspettiamo tutti l’immunità di gregge, nome quanto mai appropriato, perché attendere pazientemente e senza protestare pare essere diventata oggi la pratica zen più diffusa e più virtuosa. Ma forse più che agli ovini dobbiamo guardare ad un’altra bestiola simpatica. Dato che il virus è cinese è proprio il caso di dire che sì, quest’anno per molti è stato l’anno del coniglio.