Ughetto Forno, amare la patria al di là delle ideologie
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A soli 12 anni perse la vita per evitare che i tedeschi facessero saltare un ponte. Aveva imbracciato le armi per la libertà, fuori da ogni etichetta. Un esempio che smentisce le semplificazioni della sinistra.
A smentire le semplificazioni storiche della sinistra che fanno temere nuove e più raffinate censure basterebbe la figura eroica di Ugo Forno. A soli dodici anni, il 5 giugno del 1944 perse la vita, per evitare che i tedeschi, in via di fuga da Roma, facessero saltare un ponte sul fiume Aniene. La sua eccezionale vicenda ha trovato il suo primo biografo nel saggista Felice Cipriani (cfr. Ugo Forno. Il partigiano bambino, Diarkos, Santarcangelo di Romagna 2019).
Ugo era nato a Roma nel 1932 da Enea Forno e Maria Vittoria Sarace e venivano da Catania. Suo padre era impiegato alla Finanza, sua madre casalinga. Abitavano su via Nemorense a poche centinaia di metri dal luogo del “martirio” del figliolo. Era una famiglia cattolica, che non aveva particolari propensioni politiche ma, come moltissimi italiani, si erano stancati della guerra, delle privazioni e mal sopportavano l’occupazione tedesca di Roma.
Ugo aveva frequentato la scuola elementare Italico Mussolini, dal nome del nipote del Duce, il figlio del fratello Arnaldo, scomparso appena ventenne nel 1930. E aveva appena completato il secondo anno della scuola media Luigi Settembrini, quando compì l’azione di guerra che gli sarebbe stata fatale.
Il signor Enea Forno aveva aiutato dei soldati, dopo l’8 settembre, a coprirsi da eventuali retate dei nazisti. Uno facendolo passare per «traduttore di lingua inglese presso la Enciclopedia Cattolica Vaticana» e un altro cercando di farlo «ospitare in un convento».
Ugo aveva un fratello più grande di nome Francesco che frequentava il liceo classico Giulio Cesare, «inaugurato il 28 ottobre 1928 alla presenza del capo del governo Benito Mussolini». I due fratelli erano cresciuti sotto il fascismo divenendo Figli della Lupa, Balilla, Avanguardisti. E partecipando, come era comune all’epoca, «con entusiasmo, alle sfilate, ai raduni, alle gare, ai campi Dux, agli Agonali della GIL (Gioventù Italiana del Littorio)». Come capitò a moltissimi futuri antifascisti, occultati dalla Schlein e dai suoi.
Quando la mattina andava a scuola, Ugo Forno «si fermava a metà strada nella chiesa di San Saturnino in via Avignana, il tempo di una preghiera».
Insomma era un bambino assolutamente normale nel contesto dell’Italia degli anni ’40, ed era cresciuto leggendo Il Vittorioso, il diffuso giornalino cattolico per ragazzi, il cui motto era tutto un programma: “Lieti, forti e leali”.
Il giudizio dell’insegnante di scuola diceva così: «Profilo vivace, intelligente, viene a scuola con entusiasmo. È felice se può dimostrare che sa. Pieno di buona volontà, un po’ troppo irrequieto, ma buono e generoso».
Fu forse la sua generosità, quasi una santa imprudenza giovanile, che gli fece imbracciare le armi, assieme ad altri coetanei, per cercare di impedire ai tedeschi in ritirata, di far saltare il ponte.
Ughetto, infatti, aveva notato «dei sabotatori tedeschi che armeggiavano attorno al ponte di ferro sull’Aniene». E sapendo che in alcune grotte della zona erano nascoste delle armi, assieme ad altri ragazzi, ne prese alcune. Poi tutti armati decisero di colpire i sabotatori per farli desistere dal loro progetto. Passando da una casa colonica della zona i ragazzi convinsero alcuni contadini ad unirsi al gruppo.
Mentre i tedeschi stavano effettivamente piazzando dei pacchi di esplosivo, i ragazzi spararono per primi. Alcuni colpi finirono nel fiume, altri sulle arcate metalliche del ponte. Sulla legittimità morale di una azione di questo tipo, lasciamo il giudizio ai teologi e ai moralisti: essa in ogni caso richiese eroismo, quella parola che sembra essersi persa nei meandri della storia.
Secondo la successiva dichiarazione del paracadutista Giovanni Allegra, «il dodicenne Ugo Forno di Enea, con fede patriottica e spirito guerriero» cercò di «scacciare gli ultimi avanzi della soldataglia tedesca annidata a ridosso del ponte sull’Aniene».
Ugo e i suoi amici non combattevano per ideologie o contro ideologie, ma per l’Italia che volevano indipendente e libera. Un infermiere, Alfredo Tocci, chiamato ad assistere i feriti del gruppo di Ugo, lo trovò, verso le ore 10, «che giaceva al suolo esanime, colpito al petto mortalmente da una scheggia». E alcuni cittadini presenti «presero una bandiera tricolore» – e non già la bandiera rossa dei partigiani antifascisti – e «ne coprirono la salma».
In anni recenti, Roma gli ha dedicato una strada, un giardino, oltre alla targa sul palazzo dove visse. Ma già nell’anno scolastico successivo al suo sacrificio, il preside della scuola farà mettere una «grande foto di Ugo dietro la cattedra», su cui monsignor Cosimo Bonaldi, un parroco di Roma, scrisse una poesia in suo onore. In essa, Ughetto è definito «buon milite della Santa Battaglia».
Nel 2013 Ugo Forno ha ricevuto la Medaglia d’oro al merito civile per «fulgido esempio di amor patrio ed encomiabile coraggio». Il che è sacrosanto.
Definire invece Ughetto come antifascista, come fa l’Anpi e gruppi analoghi, è inappropriato perché un dodicenne agisce per purezza, non per ideologia. Quello che è certo è che il piccolo grande Ugo era un cattolico praticante. Ed un amante della patria e della sua libertà, coartata dall’occupazione tedesca.
Del resto, nella lotta contro l’occupazione nazista, in Italia come in Francia, in Polonia o in Russia, c’erano uomini di ogni sensibilità. Inclusi monarchici, liberali, anticomunisti, preti e tanti cattolici militanti. Non sono mai mancati i simpatizzanti del fascismo che non accettarono però la sottomissione del proprio paese al Führer e alla sua ideologia neopagana. Il collante di tutti era il patriottismo, che a tanta sinistra ora non va più bene. E con la scusa dell’antifascismo si vogliono impedire il patriottismo e l’italianità. Ma Ugo e il suo sacrificio indicano la via da seguire: altruismo, patriottismo, eroismo.
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