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STATI UNITI

Trump vince al Senato: 1500 miliardi di tasse in meno

La riforma fiscale negli Stati Uniti, voluta da Donald Trump passa il suo scoglio più grande: è stata approvata dal Senato, pur con una maggioranza risicata. 1500 miliardi di tasse in meno nei prossimi 10 anni. Sinistra scandalizzata: si aiutano i ricchi. Famiglie avvantaggiate, anche sullo home schooling.

Esteri 03_12_2017
Donald Trump e Mitch McConnell (capogruppo repubblicano in Senato)

Con pochi, ma significativi, aggiustamenti nel testo, il Senato degli Stati Uniti ha votato riforma fiscale più incisivo dagli anni ’80. Tecnicamente è solo il primo di tre voti, perché adesso spetta alla Camera far passare il proprio piano, simile ma non identico a quello del Senato. E poi si passerà all’ultimo voto in Senato per l’approvazione definitiva. Entro Natale, il presidente Trump potrebbe firmarlo per la promulgazione. Da un punto di vista politico, tuttavia, si è passato lo scoglio più grande e i Repubblicani al Congresso hanno tutte le ragioni del mondo per festeggiare di già la vittoria. Si tratta di un taglio di tasse immenso, pari a circa 1500 miliardi di dollari (al netto delle maggiori entrate dovute alle minori deduzioni fiscali) in dieci anni.

I dettagli di questa riforma fiscale li avevamo già visti su queste colonne, quando il testo della riforma era stato presentato in Senato. La sua versione definitiva è stata approvata, con una maggioranza risicata (51 voti a favore e 49 contrari) dopo la votazione di quattro emendamenti. Due di questi sono stati bocciati, due promossi e inclusi nella riforma. L’emendamento bocciato nel modo più schiacciante avrebbe leggermente alzato l’aliquota sull’utile delle imprese, da 20 a quasi 21% e aumentato l’esenzione fiscale per i bambini, ma solo per le famiglie con reddito più basso. Emendamento bocciato con 71 voti contrari e 29 favorevoli, nonostante il sostegno di alcuni big del mondo conservatore, quali Ted Cruz e Marco Rubio, oltre che di una piccola pattuglia di 9 senatori democratici. Gli altri tre emendamenti sono tutti stati promossi o bocciati con votazioni al fotofinish.

E’ passato quello di Ted Cruz, sulla libertà di educazione, con il quale l’uso dei fondi di risparmio “529” (quelli con cui i genitori risparmiano somme esentasse per permettersi la retta del college per i figli) viene esteso anche alle scuole private, religiose e allo home schooling. L’emendamento rischiava di non passare a causa della diserzione di due repubblicane, Susan Collins e Lisa Murkowski, ma alla fine è stato approvato con una maggioranza di un solo punto. Quello del vicepresidente Mike Pence, che ha rotto l’impasse esercitando il suo diritto di voto. I democratici hanno invece ottenuto una loro piccola vittoria facendo passare un emendamento che rimuove l’esenzione fiscale sulla dotazione universitaria. Hanno vinto votando in modo compatto e ottenendo i voti di ben quattro dissidenti Repubblicani: le solite Susan Collins e Lisa Murkowski e in più anche John Kennedy (omonimo) e Deb Fischer. Bocciato, invece, l’emendamento democratico che avrebbe reintrodotto il divieto di trivellare gas e petrolio nella riserva naturale artica dell’Alaska, anche perché un democratico, Joe Manchin III, ha votato contro (mentre Susan Collins, anche in questo caso, ha votato assieme ai democratici).

Alla fine, Susan Collins è stata “comprata” con altre due concessioni: deduzione delle tasse locali sulla proprietà, pagate nello Stato di residenza, fino a un tetto massimo di 10mila dollari e deduzione sulle spese sanitarie delle persone con fascia di reddito più bassa. Bob Corker invece è stato inamovibile e ha votato contro la riforma, fino alla fine. La sua motivazione ufficiale? Senza coperture, il taglio delle tasse finisce per aumentare il deficit e dunque anche il debito pubblico. Ma, politicamente parlando, Bob Corker è già letteralmente in guerra con il presidente Trump, con pesanti scambi di accuse su Twitter e con l'iniziativa di Corker di rimettere in discussione il comando nucleare del presidente. La riforma fiscale è passata con appena 2 punti di maggioranza, 51 voti contro 49.

Cosa comporta un taglio fiscale di queste dimensioni? La stampa liberal, a partire dal New York Times, punta il dito contro una riforma che “arricchisce i ricchi” e “non aiuta la classe media”. Questa è tuttavia una spiegazione tipica di chi ragiona in termini di classi sociali. Se la riforma dovesse avere l’effetto che ebbe quella di Reagan, nei prossimi anni rimetterà in moto l’ascensore sociale. Dunque molti di coloro che sono “ceti medi”, un domani potrebbero essere membri dei ceti più alti, più facilmente di quel che sono ora. Con la riforma, si avvantaggia chi realizza più utili aziendali, dunque è un incentivo a produrre. E paga meno tasse chi mette in piedi una famiglia con figli, per cui si alza l’esenzione standard. Anche grazie agli emendamenti aggiunti, la riforma è innegabilmente una manna dal cielo per le famiglie, anche per quelle che vogliono provvedere direttamente all’educazione dei figli.

Dove fa acqua? Nella copertura di bilancio. Sicuramente è questa la critica (mossa da Corker, fra gli altri) più fondata al nuovo sistema fiscale. Perché senza adeguate coperture rischia di gravare interamente sul debito pubblico. I Repubblicani forse mostrano un troppo leggero ottimismo quando affermano che la crescita economica, generata da una tassazione più leggera, sarà sufficiente a colmare il buco. Nemmeno con Reagan funzionò così: il presidente simbolo degli anni 80 lasciò in eredità un debito molto superiore rispetto a quello che aveva trovato nel 1981. E il debito pesa inevitabilmente sulle generazioni successive. Certo, scagli la prima pietra chi, finora, fra i Democratici, ha sempre difeso Obama, un presidente che il debito pubblico l’ha letteralmente raddoppiato, non tagliando le tasse, ma alzando la spesa pubblica.

Da un punto di vista strettamente politico, si tratta della prima vera vittoria dei Repubblicani. Pur avendo il presidente dalla loro e la maggioranza sia alla Camera che al Senato, non avevano fatto passare nemmeno una riforma importante dal gennaio del 2017, quando si è insediato il nuovo Congresso, più che per l’opposizione dei Democratici, soprattutto per faide interne. Adesso hanno ottenuto un risultato e lo slancio che cercavano, così da avviare con più determinazione un anno elettorale: nel novembre 2018 si voterà alle elezioni di Medio Termine proprio per il rinnovo di gran parte del Congresso. Più che un banco di prova per Trump, sarà un test per la maggioranza repubblicana.