Terrorismo e immigrazione, è ormai tardi per correre ai ripari
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Dopo gli ultimi attentati, l'Ue vuole correre ai ripari. Con un decennio di ritardo, i ministri di Interno e Giustizia ammettono che vanno cambiate le regole sull'immigrazione. Gli jihadisti di Arras e Bruxelles erano immigrati e segnalati come radicalizzati da tempo. Che le norme non fossero adeguate ai tempi era però evidente e noto almeno dal 2014.
I ministri dell’interno e della giustizia dell’Unione Europea si sono incontrati il 19 ottobre per discutere i provvedimenti da adottare per far fronte alla minaccia di attacchi terroristici come quelli di Arras, dove il 14 ottobre un terrorista è entrato in un liceo e gridando Allah Akhbar ha accoltellato un insegnante uccidendolo, e di Bruxelles, dove il 16 ottobre un altro terrorista, anche lui inneggiando ad Allah, ha sparato per strada colpendo a morte due cittadini svedesi. I ministri degli Stati membri hanno convenuto che è indispensabile rivedere le politiche migratorie, migliorare il monitoraggio degli emigranti e dei richiedenti asilo per individuare quelli che possono costituire un pericolo e rimpatriarli. «È assolutamente necessario garantire che l'Unione Europea sia al sicuro dalle minacce terroristiche – ha affermato il commissario europeo per l'immigrazione Ylva Johansson – le persone che rappresentano un rischio per la sicurezza dell'Unione Europea devono essere rimpatriate molto, molto più rapidamente nel paese di origine».
Verrebbe da replicare: “adesso? dopo che centinaia di migliaia di persone sono entrate in Europa, persone che non sappiamo con esattezza chi sono, da dove arrivano, perché sono venute, perché sono rimaste, se non per aver pronunciato la frase che apre tutte le frontiere, “chiedo asilo”, e delle quali in molti, troppi casi, non sappiamo che fine abbiano fatto; o invece lo sappiamo e abbiamo consentito che restassero in Europa persino dopo averne tracciato le attività illegali.
La Johansson ha definito l’attentato di Bruxelles “un campanello d’allarme”. Ma quel campanello suona almeno dal 2014, se non prima. È da allora che proclami jihadisti hanno sfidato l’Europa. Nel 2014 e nel 2015 più di una volta sulla copertina della rivista dell’Isis, Dabiq, è comparsa l’immagine della bandiera nera del Califfato che sventolava su Piazza San Pietro. «Conquisteremo Roma e spezzeremo tutte le vostre croci» minacciava il capo del Califfato, Abu Bakr al-Baghdadi, il 13 ottobre 2014 e, il 18 novembre 2015, «Chiediamo ad Allah di sostenere i mujaheddin contro gli agenti dei leader dell'idolatria e i crociati finché la bandiera del Califfato non sarà issata su Istanbul e la Città del Vaticano». Circolavano anche dei video con appelli al jihad in Europa, come quello del 19 novembre 2014 in cui dei foreign fighters francesi incitavano i loro connazionali musulmani a unirsi alla causa dei jihadisti dell’Isis e a lanciare degli attacchi in Francia, da “lupi solitari”.
Dopo la morte del colonnello Gheddafi, nel 2011, migliaia di terroristi islamici si erano riversati nel paese e si sapeva che la Libia era diventata per il jihad un punto strategico da cui penetrare in Europa. Arrivavano sulle coste del Mediterraneo dal Maghreb e da altri stati africani, soprattutto dalla Nigeria, inviati da uno dei più pericolosi gruppi armati, Boko Haram. Sul quotidiano La Stampa, il 1° settembre 2015, il giornalista Maurizio Molinari commentava: «È la prima volta che si ha notizia di un trasferimento di miliziani dalla Nigeria alla Libia per sostenere le operazioni dell’Isis e ciò lascia intendere che l’adesione al Califfo da parte di Boko Haram sta portando a una cooperazione militare, probabilmente grazie al controllo delle rotte del Sahara attraverso il Niger. Fonti militari americane affermano che la tattica Isis è operare in Libia controllando aree costiere e punti di confine nel deserto, al fine di gestire traffici illeciti di uomini e merci da cui trarre ingenti profitti».
Sono trascorsi otto anni, in Europa sono stati compiuti tanti attentati rivendicati dal jihad. Hanno colpito uomini, donne, bambini. Ma ancora mancano, per ammissione delle stesse autorità Ue e nazionali, strumenti efficaci di prevenzione. L’uomo di origine russa accusato di aver pugnalato a morte l’insegnante di Arras era noto come possibile rischio per la sicurezza, ma non era stato possibile ordinarne l’espulsione, dicono le autorità francesi, a causa della legislazione in vigore. E dire che la Convenzione di Ginevra sui rifugiati prevede che persino una persona titolare dello status giuridico di rifugiato possa essere espulsa se costituisce una minaccia per la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico.
L’attentatore di Bruxelles, Adbesalem Lassoued, era arrivato a Lampedusa nel 2011, aveva chiesto asilo in Italia, dove era stato identificato dai servizi segreti come un soggetto radicalizzato e per questo monitorato, poi in Norvegia e Svezia. Arrestato a Malmo e trovato in possesso di cento grammi di cocaina era stato condannato a due anni di carcere per traffico di droga. Da ultimo aveva chiesto asilo in Belgio, gli era stato negato e da allora di lui si erano perse le tracce. In Tunisia era stato condannato a 26 anni di carcere per tentato omicidio. Addirittura le autorità tunisine nell’agosto del 2022 avevano presentato richiesta di estradizione al Belgio. «Probabilmente è stata dimenticata in qualche schedario» ha detto il pubblico ministero Tim De Wolf che denuncia la carenza di personale per la mancata attuazione della richiesta di estradizione.
Il 19 ottobre il ministro della giustizia belga Vincent Van Quickenborne ha rassegnato le dimissioni per quello che ha definito un «errore colossale e inaccettabile con conseguenze drammatiche». «Voglio sinceramente scusarmi con le vittime e i loro cari – ha detto durante il suo discorso di dimissioni – non cerco scuse. Mi assumo la responsabilità politica di questo errore inaccettabile». Quanti altri dovrebbero fare altrettanto?