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ESEMPI VIRTUOSI

Taiwan, Singapore, Corea: il virus ingabbiato senza perdere la libertà

Si porta sempre più ad esempio la Cina totalitaria per i metodi di contenimento dell'epidemia di coronavirus. E l'Italia, pur volendo restare un Paese democratico, sta provando ad imitarli. Eppure, oltre ad essere un modello più che discutibile, la Cina non è neppure l'unica nazione asiatica ad aver efficacemente contrastato l'epidemia. Altri Paesi, come Taiwan (la Cina democratica) e Singapore sono riuscite a prevenire lo scoppio dell'epidemia. Mentre la Corea del Sud, una delle nazioni più colpite, sta riuscendo a rallentarla come e più della Cina. E nessuno di questi governi ha usato metodi totalitari, ha bloccato intere regioni o interi settori economici come stiamo facendo noi.
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Attualità 11_03_2020 English Español
Corea del Sud, controlli sui passeggeri

La Cina sta diventando una vera ossessione, per chi deve prendere esempi all’estero su come lottare efficacemente contro l’epidemia di Covid-19. Ma oltre ad essere inopportuno (è proprio da quel Paese che è partito tutto e il regime ha le sue grandi responsabilità), è anche un esempio incompleto, perché altri Paesi in Asia hanno finora efficacemente combattuto contro il virus e sono riusciti a contenerlo, con risultati addirittura migliori. Pur non ricorrendo ai costosi e brutali metodi impiegati da colosso comunista.

Contrariamente alla Cina comunista, Taiwan (la Cina democratica) ha applicato metodi molto differenti, per non dire contrari. Mentre Pechino censurava ancora le notizie, prima ancora che lo scoppio dell’epidemia divenisse di dominio pubblico in tutto il mondo, il governo di Taipei si è mobilitato e ha incominciato a diffondere subito informazioni essenziali alla popolazione. Il tutto all’insegna della massima trasparenza. Merito soprattutto della passata tragica esperienza di epidemia di Sars (2002-2003), le autorità dell’isola cinese si sono mosse tempestivamente. Già da gennaio, aiutate da molte iniziative private, hanno fatto in modo che ogni cittadino sapesse come agire, quale comportamento tenere e dove procurarsi le mascherine, con applicazioni di cellulare costantemente aggiornate su dove trovarle in tutta l’isola. Dall’inizio di gennaio il governo di Taipei ha istituito un unico centro di comando e controllo per coordinare gli sforzi sanitari. Dal 31 dicembre, Taipei aveva introdotto controlli per i passeggeri in arrivo da Wuhan, ancora prima che le autorità cinesi dessero la loro conferma ufficiale dell’esistenza dell’epidemia. Da gennaio sono iniziate le quarantene obbligatorie per chi arrivava dallo Hubei, la prima provincia cinese colpita. A febbraio, le stesse restrizioni sono state applicate a tutti i viaggiatori che erano stati in Cina o che vi erano anche indirettamente connessi e la quarantena è stata estesa anche a chi arrivava da Hong Kong e da Macao. La quarantena è stata applicata molto seriamente, con multe equivalenti anche a 10mila dollari per chi la violava, o nascondeva un viaggio in aree di epidemia. La prevenzione ha avuto successo, considerando che (al momento in cui questo articolo va online) a Taiwan si registrano solo 47 casi di coronavirus su 22 milioni di abitanti.

Un’altra storia di successo è la città-Stato di Singapore, che ha impiegato metodi preventivi simili a quelli di Taiwan. Anche in questo caso, l’esperienza dell’epidemia di Sars è servita molto. Il premier Lee Hsien Loong, dopo un discorso esemplare per calma, ottimismo e chiarezza, ha messo in quarantena e poi chiuso le frontiere a tutti i viaggiatori provenienti dalla Cina. Benché un primo focolaio si sia sviluppato ugualmente in casa, le autorità sanitarie locali hanno sviluppato un metodo molto raffinato per tracciare gli infetti e tutti i contatti personali che hanno avuto nell’isola. Anche in questo caso, le punizioni per chi mente alle autorità, sui contatti, sui sintomi o per chi viola la quarantena, possono costare molto caro, anche il carcere. Ad oggi (11 marzo 2020), Singapore ha registrato solo 166 casi, di cui 93 guariti, su una popolazione di 5 milioni e mezzo di abitanti.

Singapore e Taiwan sono isole, benché estremamente connesse con la Cina, hanno comunque avuto la possibilità di chiudersi in difesa sulle loro frontiere. Hanno fatto quel che, forse, anche l’Italia avrebbe potuto e dovuto fare dalla fine di gennaio, quando l'epidemia infuriava solo in Asia. Il caso della Corea del Sud può dunque essere più interessante per noi, perché è una dimostrazione di come si sia riusciti a contenere un’epidemia che si era già rapidamente diffusa.

Benché fosse il secondo Paese al mondo, dopo la Cina, per numero di contagi, con quasi 8mila casi accertati, la Corea del Sud attualmente registra un continuo calo del numero degli infetti. La marea epidemica si è invertita, molto probabilmente, da qui in poi. Anche in questo caso, il governo di Seul, non è ricorso all’imposizione di zone rosse ad intere città e regioni come in Cina (e come si prova a fare in Italia). La libertà di movimento non è mai stata seriamente limitata se non nelle aree più infette, come la città di Daegu. I metodi impiegati, come a Taiwan e a Singapore, sono soprattutto la diagnosi precoce e il tracciamento dei contagiati, oltre alla ricostruzione di tutti i loro contatti. Su una popolazione di quasi 52 milioni di persone, comparabile a quella italiana, tracciare i contagiati e tutti i loro possibili contatti non deve essere stato un lavoro facile, ma è stato possibile grazie alla tecnologia che anche in Italia è molto diffusa, come la geolocalizzazione dei cellulari, la raccolta di dati pubblici e soprattutto una campagna massiccia di diagnosi col tampone. Ad oggi sono stati effettuati almeno 180mila test col tampone. Prima ai viaggiatori connessi alla Cina direttamente e indirettamente, poi a tutti i cittadini che lo richiedevano. Per accelerare i tempi, le autorità coreane hanno allestito delle stazioni sanitarie lungo le strade, dove è possibile effettuare il test senza neppure scendere dalla propria auto. In giornata i risultati arrivano sul cellulare della persona che si è sottoposta al test. Da quel momento, lui e i suoi contatti sono avvertiti e devono rispettare la quarantena.

Per tracciare i casi sospetti, in Corea del Sud sono arrivati per primi degli sviluppatori privati, che hanno creato delle applicazioni per cellulari che mostrano la mappa dei contagiati. Senza rivelare le loro identità personali, le mappe indicano dove si trovano i contagiati, dove si sono spostati, che locali hanno frequentato. In questo modo, i coreani, pur continuando ad essere liberi di muoversi, sanno dove è più pericoloso andare. Il governo è arrivato tardi, proponendo solo nelle ultime settimane una applicazione per Android (la versione per iPhone sarà online solo dal 20 marzo) che consente alla persona in quarantena di ottenere informazioni in tempo reale (ma in cambio fornisce automaticamente la sua posizione alle autorità). L’altra faccia della medaglia di questo sistema è il rischio di caccia all’untore. Benché si tratti di sistemi che rispettano la privacy un privato bravo a investigare sul Web può incrociare i dati a disposizione e risalire all’identità del malato e dei suoi contatti. E purtroppo sono numerosi, ormai, i casi di linciaggio online per chi è accusato di aver tenuto un comportamento imprudente. Anche i locali pubblici che hanno frequentato rischiano di essere disertati, di perdere i clienti.

Ovviamente nessun metodo è perfetto. Ma questi tre Paesi asiatici, contrariamente alla Cina (e contrariamente all’Italia che prova a imitarla) non hanno paralizzato la loro economia, non hanno messo in quarantena intere province e regioni. Il rischio che si corre in Paesi asiatici come Taiwan, Singapore e Corea del Sud, è appunto la violazione della privacy. Ma anche in Italia, per tutti quelli che arrivano da Lombardia, Veneto, Emilia, in generale dal Nord, è già diffuso lo stigma dell’untore. Che essendo collettivo, è pure peggiore. Così come gli abitanti dello Hubei, in Cina, sono tuttora trattati collettivamente come cittadini di serie B, discriminati anche sul lavoro, anche se sono sani, se non altra colpa di essersi trovati nel luogo sbagliato al momento sbagliato.