Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
LA SENTENZA

Suicidio assistito sì o no? C’è un problema nella Cedu

Nel caso riguardante il medico danese Svend Lings, la Cedu ha giudicato legittimo il divieto al suicidio assistito, senza però considerarlo assoluto. Già nelle precedenti sentenze la medesima corte aveva desunto un diritto (seppur con limitazioni) all’aiuto al suicidio interpretando in modo arbitrario l’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Vita e bioetica 27_04_2022

Svend Lings, medico e cittadino danese, nonché fondatore dell’associazione Medici favorevoli all’eutanasia, è stato condannato in patria per due suicidi assistiti e per un tentato aiuto al suicidio. Ad una di queste persone Lings suggerì di mettersi un sacchetto di plastica in testa e chiuderlo alla base con un elastico. In Danimarca l’aiuto al suicidio e il tentato aiuto al suicidio sono reati sin dal 1930.

Avendo perso in tutti e tre i gradi di giudizio, il dottor Lings ha fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) lamentando la violazione dell’articolo 10 della Convenzione dei diritti dell’uomo che tutela la libertà di espressione (qui la sentenza del 12 aprile scorso). Cosa c’entra la libertà di espressione in questa storia? Secondo il dott. Lings c’entra, perché questi aveva scritto un saggio consultabile in Internet dal titolo inequivocabile: “Farmaci indicati per il suicidio”. Lings, come si legge nel comunicato stampa della Cedu, “sosteneva di essersi limitato alla diffusione di informazioni sul suicidio”, tratte dal suo libro. Ma l’incriminazione in patria e quindi anche il caso portato all’attenzione dei giudici europei non riguardavano la legittimità di tale pubblicazione, mai messa in discussione dai giudici danesi perché i consigli per uccidersi lì contenuti erano rivolti ad un generalità di persone, bensì l’aver aiutato specificatamente due persone a togliersi la vita e per aver tentato di fare altrettanto con un’altra senza riuscirci, sebbene quelle stesse informazioni date da Lings a queste tre persone si potevano trovare anche nel suo libro (ma oltre alle informazioni il dottore procurò farmaci utili per dare la morte). Dunque, secondo i giudici della Cedu, la giustizia danese non ha violato l’art. 10 sulla libertà di espressione.

La Cedu considera legittimo il divieto penale relativo al suicidio assistito previsto dall’ordinamento danese per i seguenti motivi. In primis perché disciplinato dalla legge, in secondo luogo perché il divieto “persegue la finalità legittima di tutela della salute e della morale e dei diritti altrui”, come si legge in sentenza. In terzo luogo compito della Cedu “non è quello di sindacare in astratto il diritto interno”, ma solo di appurare eventuali violazioni degli articoli della Convenzione. Uno dei criteri della Convenzione da rispettare è il principio di proporzione, ossia, applicando il principio al caso in questione, il reato di suicidio assistito deve essere “necessario in una società democratica”. I giudici hanno concluso che tale reato è necessario perché “l’articolo 2 della Convenzione, che istituisce per le autorità il dovere di proteggere le persone vulnerabili, anche contro le azioni che mettono in pericolo la propria vita, obbliga anche le autorità nazionali a impedire che un individuo si tolga la vita se la decisione non è stata presa liberamente e con piena consapevolezza di ciò che comporta”. Insomma un via libera all’eutanasia posto che l’aspirante suicida sia consapevole di ciò che fa.

Un quarto motivo per considerare legittimo il reato danese di aiuto al suicidio è il seguente: la Corte può dichiarare illegittima una certa sentenza e relative leggi di uno Stato - e quindi entrare nello spazio di sovranità nazionale - laddove, oltre al mancato rispetto dei criteri prima menzionati, si è giunti su un certo argomento ad una significativa visione comune tra gli Stati membri europei, visione non sposata dalla sentenza oggetto di ricorso presso la Cedu. Nel caso del suicidio assistito non siamo pervenuti ad un’interpretazione condivisa secondo la quale l’aiuto al suicidio deve essere sempre consentito e quindi la Cedu, nella vicenda del dottor Lings, non è arrivata al punto da censurare le tre condanne da questi subite in patria. Inoltre il margine di apprezzamento concesso agli Stati si riduce proporzionalmente se in gioco c’è la tutela dell’identità della persona, tema che pare non interessare il caso Lings.

Poi la Corte arriva ad una dichiarazione importante: “Nella giurisprudenza della Corte […] non vi è alcun supporto per concludere che un diritto al suicidio assistito esiste ai sensi della Convenzione”. Ma se andiamo a leggere le precedenti sentenze della Cedu sull’aiuto al suicidio, l’orientamento giurisprudenziale della Corte appare diametralmente opposto. La Cedu si è occupata di suicidio assistito in altre occasioni: Pretty contro Regno Unito 2002, Haas c. Svizzera 2011, Gross c. Svizzera 2013/Gross c. Svizzera (GC) 2014, e Koch c. Germania 2012. In queste sentenze si legittimava il ricorso al suicidio assistito, seppur nel rispetto dei vincoli prima indicati (tutela delle persone vulnerabili, principio di proporzione, etc.), e dunque la Corte si esprimeva a favore di un diritto al suicidio assistito. Tale diritto deriverebbe da un’interpretazione assai disinvolta dell’art. 8 della Convenzione che tutela il diritto al rispetto della vita famigliare e privata. Così la Cedu: “Il diritto individuale di decidere come e quando la propria vita avrà fine […] è un aspetto del diritto al rispetto della vita privata di cui all’articolo 8 della Convenzione” (Haas c. Svizzera 2011). Naturalmente il significato originario di questo articolo è altro e non c’entra assolutamente nulla con il suicidio, ma la Cedu lo ha usato spesso in modo strumentale per sdoganare molte condotte contrarie ai principi non negoziabili.

Dunque, da una parte la Cedu qualifica il suicidio assistito come diritto, seppur non assoluto, e su altro fronte il 12 aprile scorso ha espressamente affermato che la Convenzione non sancisce un diritto al suicidio assistito (seppur nella sentenza stessa, come abbiamo notato, consenta l’aiuto al suicidio se la persona non è soggetto vulnerabile). Come sanare questa contraddizione?

Diamo una duplice possibile spiegazione. La prima: i giudici hanno cambiato parere. Difficile se non quasi impossibile che sia così, sia perché i giudici Cedu sono abbastanza fedeli al proprio orientamento pregresso sia, soprattutto, perché in sentenza avrebbero dovuto dar espressamente conto di tale cambio di rotta, ma così non è stato. La seconda spiegazione appare più plausibile. L’affermazione contenuta in sentenza “nella giurisprudenza della Corte […] non vi è alcun supporto per concludere che un diritto al suicidio assistito esiste ai sensi della Convenzione” diventa nel comunicato stampa della stessa Cedu la seguente: “La Corte sottolinea che la Convenzione non sancisce il diritto al suicidio assistito”. La Corte potrebbe aver voluto precisare che in nessun articolo della Convenzione si legittima formalmente, ossia esplicitamente, il diritto all’aiuto al suicidio. Tale diritto verrebbe desunto implicitamente dall’art. 8 prima menzionato.

Se nella Convenzione fosse presente a chiare lettere la tutela del diritto all’aiuto al suicidio sic et simpliciter, inteso quindi in modo assoluto, Lings avrebbe avuto ragione a lamentare la triplice condanna subita in patria. Ma così non è. Invece tale legittimazione si ricava in modo indiretto dall’art. 8 e, come abbiamo visto, il suo esercizio è inoltre sottoposto ad alcuni vincoli. Nel caso Lings la Corte non ha ravvisato nessuna violazione della Convenzione da parte dei giudici danesi perché il divieto penale che riguarda il suicidio assistito rispetterebbe tali vincoli che interessano la tutela delle persone fragili, il principio di proporzione, etc.

In sintesi la Cedu non negherebbe che esista un diritto al suicidio assistito, che viene desunto dall’art. 8 della Convenzione e che è sottoposto a vincoli; negherebbe solo che sia presente esplicitamente nella Convenzione.