Storia di Giusy, strappata alla eutanasia da coronavirus
Arrivata nel Pronto Soccorso di un ospedale in Lombardia con forti dolori toracici, alla signora Giusy, 79enne cardiopatica, viene diagnosticata una polmonite interstiziale. Alla figlia viene spiegato che, date le condizioni, in ospedale verrà accompagnata alla morte con la morfina: «Non si preoccupi, non soffrirà». Ma seguendo la propria intuizione e il consiglio di un medico amico, la figlia si riporta la madre a casa. E ora dopo dieci giorni non solo è ancora viva, ma sta molto meglio. Un racconto impressionante, in prima persona, che apre uno squarcio su quanto sta accadendo almeno in alcuni ospedali.
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Sabato 28 marzo: ricevo una telefonata da una conoscente: “Dottore buongiorno, sono Alessandra. C’è la mamma che non sta bene, volevo chiederle un consiglio…”. La signora Alessandra mi spiega che sua madre, 79 anni, cardiopatica, accusa dolori toracici. Potrebbe essere un problema cardiaco, la signora Giusy ha già dovuto fare due interventi. La figlia però ha un po' di timore a chiamare un’ambulanza, perché non vorrebbe che la mamma finisse nel calderone dei casi Covid. Le suggerisco di portare lei stessa la mamma in ospedale, portando con sé la documentazione dei precedenti ricoveri e delle visite specialistiche, facendo presente che si tratta di una persona cardiopatica.
Dopo alcune ore, Alessandra mi chiama direttamente dal Pronto Soccorso di uno dei vari ospedali lombardi che lavorano al limite delle proprie possibilità. La voce di Alessandra è spaventata, angosciata, e mi spiega quello che è successo. Dopo aver detto che la madre accusava dolori toracici, questa è stata sottoposta a esame radiografico del torace. Le viene assegnato un codice giallo, indice di una certa gravità. Alla visita tuttavia il medico visitante non riscontra né febbre né dispnea. Poi arriva l’esito dell’RX: “Diffuso ispessimento della trama interstiziale; reperti sospetti per patologia flogistica interstiziale”. La diagnosi è presto fatta: polmonite interstiziale. Una diagnosi che in questi giorni è stata fatta migliaia di volte, purtroppo.
A questo punto Alessandra, che ha compreso quello che sta succedendo, chiede ulteriori chiarimenti. Il medico, con tranquilla professionalità, le spiega che purtroppo la situazione è grave, e che l’età e le condizioni della signora devono far sì che si cominci a preparare al peggio. Il medico tuttavia rassicura Alessandra, dicendole che la madre non soffrirà. Verrà “accompagnata dolcemente” alla morte con il supporto della morfina. Alessandra chiede se non vogliano tentare una terapia antibiotica. “È troppo tardi” è la risposta del sanitario. Ormai non resta che “l’accompagnamento” indolore all’inevitabile esito. Così dicono quei protocolli non scritti previsti per chi è sopra i 75 anni, e qualche volta anche meno, se hai una importante patologia invalidante.
Alessandra mi spiega tutto al telefono, con voce rotta dall’emozione. A mia volta avverto una sensazione strana. “Lei signora mi sta dicendo che ha ricevuto una sentenza di morte per la mamma?”. “Sì, dottore. Cosa devo fare? Mi dica lei”. In quell’attimo non ho esitazioni. “La porti a casa, Alessandra. Firmi e la porti a casa. Me ne prenderò cura io, se vuole. Non le garantisco nulla, se non che me ne prenderò cura e, se dovrà morire, potrà farlo con lei accanto”.
Alessandra segue il mio consiglio. Nella dimissione dal Pronto Soccorso, si possono leggere queste righe: “Diagnosi: polmonite interstiziale. I parenti resi edotti della situazione, prospettate le eventuali complicanze, rifiutano il ricovero assumendosi ogni responsabilità. Esito: rifiuto del ricovero.”
La signora Giusy torna dunque a casa, amorevolmente assistita da sua figlia. Le prescrivo la terapia, con un mix di farmaci che forse non saranno ancora ufficialmente adottati negli ospedali previ trials clinici e studi in doppio cieco, ma qui c’è da salvare una vita, e non ho dubbi che occorra tentare.
Passano i giorni, e la signora Giusy migliora ogni giorno di più. Se fosse rimasta in ospedale, dopo 48 di “accompagnamento dolce” sarebbe morta, da sola, senza più vedere nessuno dei suoi cari, come successo a tantissime altre persone. Alessandra non vuole che finisca così, e io nemmeno.
Certo, in questo difficilissimo momento, gli operatori sanitari stanno facendo un’esperienza professionale difficile: quella di vedere i propri sforzi e il proprio impegno vanificati da una malattia nuova e difficile da curare, ma il compito del medico può essere solo quello di supporto, accompagnando i pazienti sino alla fine? Io credo di no. Così comincia questa avventura: salvare la signora Giusy da una morte programmata. Dico subito alla figlia che non è una lotta, una battaglia. In questi tempi ho sentito fin troppo usare metafore belliche. La trincea, la prima linea, il nemico… Tutta vuota retorica.
Il compito di un medico, il mio compito, non è combattere un virus: è prendermi cura di una persona. È fare in modo che possa riacquistare la salute, che possa respirare normalmente, che si rallenti la replicazione virale, che non salga la febbre. Niente guerre e niente armi: solo farmaci, ossigeno (finché dopo pochi giorni la signora Giusy satura talmente bene da non averne più bisogno), solo la vicinanza e la tenerezza di una figlia, che le rimbocca le coperte, che la aiuta a mangiare. Eh sì, perché passano i giorni e Giusy sta sempre meglio: i parametri sono tutti buoni.
Oggi sono passati dieci giorni, e la signora Giusy è in piedi. Vorrebbe anche andare a fare una passeggiata al sole, ma la figlia le spiega che è ancora proibito. Alessandra la guarda con tenerezza: la sua mamma è ancora viva. La sentenza di morte non è stata eseguita. E io tiro un sospiro di sollievo, e penso che la Medicina ha sempre avuto questo compito: puoi guarire spesso, puoi anche assistere al fallimento, ma puoi e devi curare, sempre.