Speranza, la virtù che non piaceva a Lutero
A dieci anni dalla pubblicazione dell'enciclica Spe Salvi di Benedetto XVI, ripercorriamo i passi salienti di questo eccezionale documento: dalla novità portata da Cristo all'attacco feroce che la "speranza" ha subito negli ultimi 500 anni, fino al compito che spetta oggi alla cristianità.
Mercoledì 25 ottobre Papa Francesco ha concluso il ciclo di udienze generali dedicato alla virtù della speranza che aveva iniziato lo scorso 7 dicembre 2016, e il 30 novembre ricorrerà il decennale dell’enciclica Spe Salvi di Benedetto XVI.
La speranza è una parte fondamentale della vita cristiana, è la virtù che, su un piano soprannaturale, ci permette di aprire il cuore alla misericordia del Padre e, su un piano naturale, di vivere per il domani cioè di pensare, inventare, lavorare, produrre e progredire, in una parola rispondere al comando divino «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra» (Gen. 1, 28). Quindi ben si comprende perché un anno di catechesi e un’enciclica dedicata proprio ad approfondire la bellezza di questa virtù teologale.
Il documento di Benedetto XVI non ha un semplice risvolto spirituale, ma si apre ad orizzonti culturale che avvolgono tutta la prospettiva esistenziale dell’uomo attraverso i secoli.
In primo luogo mette in evidenza come la speranza sia una virtù legata teologicamente alla Bibbia e ancor più a Cristo. Se i popoli antichi hanno cercato di dare una spiegazione al nostro vivere e soffrire su questo mondo, è con la Rivelazione biblica che Dio stesso dona all’uomo una spiegazione coerente del suo esistere: creato per amore, macchiatosi di una gravissima colpa e per questo separato dalla fonte della sua esistenza, l’uomo ha però ancora una possibilità di recuperare la sua dignità originaria e ritornare all’unione di amore con il Creatore. L’uomo, estromesso dal Paradiso, potrà tornarci grazie alla misericordia del Padre che donerà una strada di salvezza. La promessa fa nascere nel popolo ebraico la speranza, fondata sulla certezza che la parola di Dio è vera, e con Cristo la speranza entra pienamente nella storia. Non solo il pensiero ebraico, ma anche la filosofia greca, che con il suo rigore critico aveva corroso le credenze pagane dei popoli antichi, trova compimento e soddisfazione nell’incontro con il Logos, il Verbum giovanneo, la Verità del Dio vivente. La speranza portata da Cristo al mondo ha generato gradualmente una società cristiana con i piedi ben fermi in terra ma con il volto orientato verso la certezza di una dimensione dell’essere più vera, più piena, più completa perché realtà unica con l’Eterno.
Questa prospettiva cristiana dell’esistenza, sottolinea il Pontefice nel capitolo IV, ha tuttavia subito nel tempo un processo di corruzione e di degenerazione che può essere sintetizzato in specifici momenti storici.
In primo luogo Martin Lutero e la Riforma di cui poche settimane fa si è ricordato il V centenario. Con Lutero la speranza da “certezza”, “sostanza” della vita umana, si muta in convinzione, termine che rimanda ad una dimensione soggettivistica del problema. La convinzione personale è frutto di uno sforzo volontaristico mentre, sottolinea Benedetto XVI, nella lettera di san Paolo agli Efesini «il termine greco usato (elenchos) non ha il valore soggettivo di "convinzione", ma quello oggettivo di "prova"» (S.S., n.7). Lutero priva la fede dell’apporto fondamentale della ragione e lo sostituisce con la volontà ma così facendo condanna la fede, e quindi la speranza, ad essere soggettive e a perdere la loro dimensione sociale, pubblica. Il fatto cristiano diventa un problema di “foro interno”, scrive il Papa «non è che la fede […] venga semplicemente negata» ma «viene piuttosto spostata su un altro livello – quello delle cose solamente private ed ultraterrene – e allo stesso tempo diventa in qualche modo irrilevante per il mondo» (S.S., n.17).
Il secondo passaggio è rappresentato dalla filosofia rinascimentale secondo cui la ragione è serva della scienza e la ricerca della verità diventa ricerca dell’utilità. La speranza si trasforma in cieca fiducia nel progresso, nelle “magnifiche sorti e progressive” della scienza e poi, con l’Illuminismo, diventa fiducia cieca nella libertà svincolata da ogni limite. “Sapere aude” scrive Immanuel Kant, osa svincolarti da ogni limite, da ogni vincolo. La libertà illuminista non è più finalizzata alla ricerca della verità ma è una forza che rompe i vincoli della fede e della vita politico-sociale portando in sé un «potenziale rivoluzionario di un'enorme forza esplosiva» (n. 18) come si constaterà nei disastri rivoluzionari che insanguineranno l’Europa per decenni, prima con le truppe rivoluzionarie e poi con quelle napoleoniche.
Terzo passaggio è rappresentato dal marxismo. La ragione, passata da cognitiva - cioè volta alla ricerca della verità - a strumentale – cioè funzionale alle utopie scientiste e illuministe -, viene subordinata all’utilità per una classe sociale, che diventa presto l’utilità per un partito, per uno Stato. Per Marx il regno di Dio sulla Terra s’instaura non grazie alla scienza, ma grazie alla politica. Scrive il Papa: «Il progresso verso il meglio, verso il mondo definitivamente buono, non viene più semplicemente dalla scienza, ma dalla politica – da una politica pensata scientificamente, che sa riconoscere la struttura della storia e della società ed indica così la strada verso la rivoluzione, verso il cambiamento di tutte le cose» (n. 20).
Fallita anche la speranza in un mondo perfetto e giusto, subentra la delusione, l’abbrutimento radicale del nichilismo che vede nel ’68 il suo momento emblematico. La perdita di ogni orizzonte si trasforma nell’esaltazione del soggettivismo più radicale, del piacere personale svincolato da ogni dovere, dalla libertà da qualsiasi limite fosse anche quello della propria vita. La “perdita del padre” ovvero del legame fra gli uomini, della capacità di sentirsi parte del mondo ma portatore di una responsabilità che precede e supera la propria dimensione personale, della necessità di essere parte di una comunità in cui ognuno contribuisce al bene oggettivo dell’altro e non puri “io” alla ricerca continua di “sé”, ha generato «l’esplosione della grande crisi culturale dell’Occidente» e una caduta nel nichilismo radicale. Percorso tragico, quello descritto dal Pontefice, che va oltre e aggiunge, senza timori: «Bisogna che nell'autocritica dell'età moderna confluisca anche un'autocritica del cristianesimo moderno» (n. 22) che purtroppo ha talora creduto alla critica di Lutero e ha ceduto alle utopie dell’illuminismo e del Comunismo.
La speranza, nata con la venuta di Cristo sulla terra, ha subito un attacco feroce durato più di 500 anni ed ora cosa ci rimane? L’adagio popolare “finché c’è vita c’è speranza” può rispondere all’interrogativo. Il cristianesimo, che spesso ha sbagliato non solo teologia ma anche escatologia, può e deve ritrovare le motivazioni per far rinascere la speranza e queste possono essere rintracciate prima di tutto nella consapevolezza che la salvezza se è fine primario di ognuno, è raggiungibile solo se inseriti in una comunità. L’uomo non vive come una monade in questo mondo, è in un continuo relazionarsi e quindi la propria salvezza in qualche modo dipende anche dalla salvezza degli altri. E’ il fondamento della Dottrina sociale della Chiesa, lo scopo per cui il cristianesimo ha una morale sociale oltre che individuale, o per dirla con Pio XII «Dalla forma data alla società, consona o no alle leggi divine, dipende e s'insinua anche il bene o il male nelle anime» (Radiomessaggio di Pentecoste, 1 giugno 1941). Per questo oltre al giudizio particolare ci sarà anche quello universale, perché quest’ultimo risponde alla necessità di giustizia che l’uomo sente presente nel suo cuore.
Gli orrori della storia, il cattivo che vince sul buono, devono trovare una risposta nella giustizia di Dio come mostra anche Gesù proponendo la parabola di Lazzaro e del ricco Epulone. Benedetto XVI ribadisce che l’inferno c’è, ed è la condizione che si preparano quelle «persone che hanno distrutto totalmente in se stesse il desiderio della verità e la disponibilità all'amore. Persone in cui tutto è diventato menzogna; persone che hanno vissuto per l'odio e hanno calpestato in se stesse l'amore». (n. 45).
Ma nella vita non è sempre tutto bianco o tutto nero, ognuno di noi sperimenta quotidianamente delle zone d’ombra mirabilmente spiegate da san Paolo quando nella Lettera ai Romani scrive “Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio” (7,18-19), sapienza già del pagano Ovidio che nelle Metamorfosi ha scritto «Video meliora proboque, deteriora sequor».
«Molta sporcizia - scrive Benedetto - copre la purezza, di cui, tuttavia, è rimasta la sete e che, ciononostante, riemerge sempre di nuovo da tutta la bassezza e rimane presente nell'anima» (n. 46) e che fonda teologicamente l’idea del Purgatorio.
L’amore di Dio per ogni uomo lo porta ad aspettare fino all’ultimo un segno, anche piccolo, di pentimento per potergli aprire le braccia del perdono come ha insegnato Papa Francesco durante la lunga catechesi che ha accompagnato l’Anno della Misericordia.
Chi vive oggi nella speranza?
Il Santo Padre cita grandi figure che hanno dato testimonianza alla speranza come, in tempi recenti, il cardinale Francois Xavier Nguyen Van Thuan (1928-2002) che ha patito tredici anni di carcere duro nel Vietnam comunista, e un secolo prima Giuseppina Bakita (1869-1947), schiava sudanese, testimone di quel Darfour che ancora oggi è terra di gravi persecuzioni contro i cristiani. Lei ha patito sulla sua pelle la brutalità a cui l’uomo può giungere quando separa la ragione dalla fede - come troppo spesso fa l’islam, - e ha ritrovato la speranza quando, arrivata a Verona, ha conosciuto Cristo, il Dio fatto uomo per amore dell’uomo, annunciatore della speranza al mondo perché Lui stesso Via, Verità e Vita.