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Sì, sì, ma forse no: Francesco pone più dubbi dei Dubia

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La risposta alla "prima versione" dei quesiti posti dai cinque cardinali offre chiarezza solo su un punto: il plateale rifiuto del Sommo Pontefice di rispondere in modo puntuale, preferendo lasciare zone grigie e aprire spiragli "ad usum synodi".
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Ecclesia 03_10_2023 English

È semplicemente incredibile che il Sommo Pontefice non abbia ancora trovato il tempo di rispondere ai dubia che i cardinali Brandmüller, Burke, Sandoval, Sarah e Zen gli hanno rivolto, nella “seconda edizione” del 22 luglio. E che si stia mettendo in atto un’operazione mediatica per convincere le persone che, in realtà, il Papa avrebbe risposto in modo esaustivo. Data la gravità dei temi toccati e la semplicità della risposta dovuta, la reticenza di papa Francesco – ancora una volta, dopo quella nei confronti dei dubia del 2016 – rivela più di ogni altra dichiarazione, che effettivamente non ha alcuna intenzione di rimettere sui binari la locomotiva impazzita.

Il rifiuto di Francesco di rispondere in modo puntuale svela platealmente l’inconsistenza delle rassicurazioni sue e del suo entourage sul fatto che egli voglia lasciare intonsa la dottrina per dedicarsi solo alla prassi. Se era già piuttosto arduo conciliare una prassi deviata con una dottrina corretta, ora è ancora più difficile continuare a sostenere questo slogan. Se infatti così fosse, Francesco non avrebbe avuto alcun problema a rispondere con puntualità ai quesiti.

Invece, la pubblicazione della lettera che il Papa aveva rivolto ai cardinali il giorno immediatamente successivo alla ricezione dei dubia dimostra quanto fosse necessario riformulare i quesiti e chiedere a Francesco che vi rispondesse in modo preciso. La consueta risposta ad eventuali dubia rivolti ai dicasteri, in base alla loro competenza, prevede risposte brevi, di norma precedute dagli avverbi negative o affermative, che a volte esauriscono la risposta stessa. Francesco ha invece scelto la strada di non rispondere con precisione a questioni fondamentali per la vita della Chiesa, provocando così la scontata e legittima nuova richiesta dei cardinali.

Appare piuttosto sconcertante anche il fatto che il Papa abbia potuto mettere nero su bianco che «anche se non ritengo sempre saggio rispondere alle domande rivolte direttamente a me (perché sarebbe impossibile rispondere a tutte), in questo caso credo sia opportuno farlo per la vicinanza del Sinodo». Evidentemente Francesco non ha molto riguardo del fatto che a scrivergli sono cinque cardinali che gli sottopongono interrogativi capitali per la fede dei cristiani, e non una scolaresca che gli manda le cartoline della gita di classe. La sua premura era mettere a tacere tutto prima del Sinodo, ma non tutte le ciambelle riescono col buco.

Vediamo adesso con ordine il contenuto dei dubia e della “risposta” del Papa. La prima domanda di chiarimento rivolta al Pontefice pone sul tavolo la ratio che muove tutte le altre: la Chiesa può cambiare il proprio insegnamento, fino a sostenere, in materia di fede e di morale, l’esatto contrario di quanto affermato nel suo Magistero straordinario e ordinario? Papa Francesco ha spesso citato quel passo del Commonitorium di San Vincenzo di Lérins che parla del necessario sviluppo della dottrina, che si consolida, si sviluppa, si raffina. Il punto è che nel testo del Commonitorium non tutti i cambiamenti sono benvenuti, ancor meno quelli di paradigma: la permutatio è infatti sinonimo di eresia. È per distinguere il vero sviluppo dell’alterazione che l’opera era stata scritta; eppure l’espressione eodem sensu eademque sententia di San Vincenzo non appare altrettanto prediletta da Francesco.

Nella lettera, il Papa evade ancora una volta la questione: benissimo affermare la maturazione del giudizio della Chiesa «nella comprensione di ciò che essa stessa ha affermato nel suo Magistero»; come anche ritenere che le sfide del nostro tempo possano stimolare l’approfondimento e portare ad una «migliore espressione di alcune affermazioni passate del Magistero».

Ma il punto è un altro, come più chiaramente espresso nella seconda versione del primo dubium: «è possibile che la Chiesa insegni oggi dottrine contrarie a quelle che in precedenza ha insegnato in materia di fede e di morale?».

La lettera di papa Francesco introduce una pericolosa distinzione: «È importante sottolineare che ciò che non può cambiare è ciò che è stato rivelato “per la salvezza di tutti” (Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica Dei Verbum, 7)». Ora, è semplicemente incredibile che il complemento di fine – ad salutem cunctarum gentium – venga interpretato come un complemento di limitazione. Il Papa sta dicendo, contro ogni senso ovvio del testo, che a non poter mutare è solo quello che è stato rivelato “per la salvezza di tutti”; e perciò bisogna «discernere costantemente tra ciò che è essenziale per la salvezza e ciò che è secondario o meno direttamente collegato a questo obiettivo».

In questo modo si apre lo spiraglio a chi potrebbe sostenere che, per esempio, il diaconato femminile non è qualcosa di strettamente legato alla salvezza e che dunque, su questo punto, la Chiesa può anche mutare il suo insegnamento. Questo senso limitativo del testo della Dei Verbum richiama una vecchia questione, un colpo di mano tentato durante il Concilio sul § 11 della medesima costituzione dogmatica. Lì si trattava dell’ispirazione e inerranza dei testi biblici. Si volle inserire l’aggettivo “salutare” in riferimento alla verità insegnata «con certezza, fedelmente e senza errore» dalle Scritture sante, con l’obiettivo di restringere l’inerranza a quei soli passaggi delle Scritture che venivano considerati come connessi alla salvezza. Era lo zampino dei gesuiti (sempre loro!) dell’Istituto Biblico, che volevano mettere le basi per legittimare fantasiose esegesi. La questione venne fortunatamente portata alla conoscenza di Paolo VI, che intervenne ed ottenne l’eliminazione dell’aggettivo salutaris, sostituito dalla frase: «la verità che Dio, per la nostra salvezza, volle fosse consegnata nelle sacre Scritture». Tutta la verità consegnata alle Scritture è per la nostra salvezza e dunque ispirata e priva di errori.

Adesso Francesco inventa un’altra interpretazione limitativa del testo di Dei Verbum, facendo dire al Concilio quanto esso non afferma, in perfetta continuità con l’ermeneutica della rottura. Perché tutto quanto «la Chiesa insegna in materia di fede e di morale, sia da parte del Papa ex cathedra, sia nelle definizioni di un Concilio ecumenico, sia nel magistero ordinario universale (cfr. Lumen Gentium 25)»  non può essere cambiato, ossia non può essere espresso se non eodem sensu eademque sententia.

Il punto sta proprio lì e non è la semplice convinzione di San Vincenzo di Lérins, dal momento che l’espressione è stata ripresa dalla costituzione dogmatica Dei Filius del Vaticano I e il suo senso è contenuto nella costituzione dogmatica Dei Verbum del Vaticano II. Francesco deve semplicemente decidere se vuole approfondire taluni insegnamenti della Chiesa o se li vuole contraddire; se intende gettare maggior luce su alcuni aspetti o se intende, tramite questi aspetti particolari, rovesciare l’insegnamento della Chiesa.

Che senso ha, per esempio, citare in questo contesto l’affermazione di San Tommaso: «quanto più si scende al particolare, tanto più aumenta l'indeterminatezza» (Summa Theologiae I-II, q. 94, art. 4)? È un testo che il Papa aveva già riportato in Amoris Lætitia § 304, per farle dire in sostanza che i casi particolari sfuggono ai principi universali ed aprire così le porte alla Comunione ai divorziati risposati caso-per-caso. Ma che cosa Tommaso intendesse realmente dire, lo avevamo già spiegato in illo tempore (vedi qui). Ed è come minimo disonesto non ricordare che nell’insegnamento di San Tommaso (e della Chiesa) viene affermata l’assolutezza morale dei precetti negativi; perché «i precetti negativi obbligano semper ad semper (sempre e in ogni circostanza). In nessuna circostanza infatti si deve rubare o commettere adulterio. I precetti affermativi invece obbligano semper, ma non ad semper, ma a seconda del luogo e della circostanza» (Commento alla Lettera ai Romani, c. 13, l. 2).