Se l'intelligenza artificiale è istruita dalla censura umana
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Alcune amministrazioni italiane sperimenteranno un algoritmo che ripulisce i testi da ogni sorta di linguaggio "non inclusivo". Al posto della conclamata neutralità c'è l'ideologia dei programmatori.
Si diffondono sempre più alcuni luoghi comuni sull’Intelligenza Artificiale (IA). Uno di questi predica che i suoi oracoli siano sempre equilibrati, non partigiani, oggettivi e neutri. La vicenda che andiamo a raccontare ci dice altro. Un team di esperti informatici ha messo a punto un algoritmo che ripulisce da ogni sorta di linguaggio non inclusivo e discriminatorio tutti i documenti redatti da un’amministrazione pubblica. A farne parte è anche la prof.ssa Rachele Raus, docente del dipartimento di Interpreti e Traduttori del Campus di Forlì.
La prof.ssa Raus spiega così questo progetto linguistico a il Resto del Carlino: «gli scritti vengono sottoposti al programma che comincia a cercare eventuali elementi non inclusivi. Una volta trovati li segnala agli utenti finali e propone loro alcune possibili correzioni che potranno essere accettate o rifiutate». La giornalista Sofia Nardi poi chiede: «Come siete riusciti a educare l’algoritmo?». Segue la risposta della professoressa: «Abbiamo caricato materiali autentici: comunicati stampa, regolamenti, verbali… Questi testi hanno consentito all’algoritmo di ‘imparare’ ed estendere gli esempi a tutte le casistiche possibili». La Raus aggiunge che sono state persone in carne ed ossa ad aver istruito l’IA, nel senso che le hanno insegnato quali termini, frasi, modi di dire, etc. sono censurabili e quali encomiabili. Insomma hanno instradato l’IA nella direzione giusta e poi lei ha imparato in “autonomia”.
E dunque il risultato è stato questo: «il nostro sistema consente di ‘tradurre’ un testo non inclusivo in uno non discriminatorio. […] Molto frequentemente non si usa il femminile per alcuni ruoli o professioni, pensiamo a frasi come ‘il ministro Maria Rossi’, oppure si fa uso di stereotipi legati al genere. Entrando nel campo della disabilità, in molti testi si trova ancora ‘il sordo’, o ‘il cieco’, o peggio si usano molte denominazioni che ormai non si usano più». Questo traduttore dal Buon senso al Politicamente corretto verrà «testato nei prossimi mesi in alcune amministrazioni italiane», come ha spiegato la prof.ssa Raus ad ItaliaOggi.
Quindi se l’impiegato del catasto scriverà “architetto” l’IA correggerà in “architetta” se riferito ad una donna, “sindaco” diventerà “sindaca”, “ministro” “ministra”. Ma cosa accadrà con “capoufficio”? Si muterà in “capaufficio”? Idem per “capostazione” che, obbedendo più alla grammatica neoborghese che all’eufonia, si abbruttirà in “capastazione”? E qualora il genere grammaticale sia deducibile unicamente dall’articolo, l’IA, se davvero intelligente, cambierà solo l’articolo – il/la responsabile – oppure presa da stupidità ideologica conierà, ad esempio, il neologismo “responsabilessa”? Son problemi.
Per non parlare del campo della disabilità. L’IA perorerà la causa del rispetto menzognero perché i diversamente abili non esistono, ma esistono solo persone che hanno perso alcune abilità, ma non ne hanno acquisito altre diverse dai normodotati. Di contro se dici “persona di colore” indichi tutti gli abitanti del pianeta Terra perché non c’è persona che non abbia un colore. E dunque non è discriminatorio per tutti gli altri che solo chi ha la pelle scura si possa fregiare dell’appellativo “di colore”? Perché questo ingiusto privilegio linguistico?
Proseguendo, non è svilente per una persona essere definita per quello che non è piuttosto per quello che è? Il non vedente, il non udente. Quale peloso e falso riguardo poi si cela dietro le espressioni “operatore ecologico” e “operatore scolastico”? La mancanza di rispetto nell’usare parole come “sordo”, “cieco”, “spazzino”, “bidello” non sta nelle parole stesse, ma può essere presente eventualmente solo nell’intenzione di chi le usa. Non diamo la colpa alle parole, ma alle persone. Non discriminiamo quei termini che indicano da sempre alcune ferite inferte dal peccato originale o alcuni lavori che splendono di nobilità nella loro umiltà e che come tali sono termini innocui e semmai, il più delle volte e quando la societas era cristiana, hanno mosso più che al dileggio alla pietà, per le menomazioni, e all’apprezzamento, per i lavori umili.
Beethoven stesso parlava di sé come un sordo e, in quel caso, benedetta sordità perché anche grazie a lei quel rozzo orso renano, come lo definì Cherubini quando non c’era ancora l’IA, scrisse capolavori di allucinante bellezza. Omero significa anche “cieco”: vogliamo cambiare il nome al sommo poeta per non offendere nessuno? E poi, quale studente liceale lo hai mai preso in giro – qui l’IA correggerebbe in “bullizzato” – per la sua cecità? Tra l’altro, l’IA come tradurrebbe cecità? Mancanza della capacità di vedere? Ma le parole non sono nate anche per sintetizzare concetti e realtà? E infatti chi mai sarebbe andato a vedere un cartone animato chiamato “Biancaneve e le sette persone di bassa statura”?
Si diceva: l’IA dato che ha un quoziente intellettivo pari a dieci Einstein elevato al cubo si libra sicuramente al di sopra alle minute partigianerie di noi omuncoli, vola alto nei cieli della cristallina oggettività, perché la discriminazione è sempre frutto dell’ignoranza, della stupidità. Questo progetto linguistico ci rivela invece che dietro l’IA c’è sempre la mente umana, intelligente o stupida a seconda dei casi, che la imbecca, la indirizza orientandola verso certi valori o disvalori, informandola di particolari ed umanissime angolature culturali. L’IA perciò è tutto fuorché super partes perché esprime gli orientamenti dei suoi programmatori.
E dunque l’IA più che un traduttore è un traditore, perché non rappresenta la realtà per quello che è, ma per quello che una certa ideologia vorrebbe che fosse. Oggi, allora, il vero cieco e sordo è l’IA. Inoltre non è originale, dal momento che sforna copie su copie di polverosi stereotipi. L’IA, poi, più che correttore è un corruttore, corruttore dei costumi perché piega il percepito comune secondo i canoni della vulgata corrente. Non correttore, ma algoritmo assai scorretto perché allineato al politicamente corretto che è quel filtro a trame fittissime che permette di trattenere le impurità come le differenze di sesso e di abilità. «Redazione di testi puliti» ha detto in modo rivelatorio la prof.ssa Raus indicando la finalità di questo progetto, testi privi delle scorie del buon senso che chiama un sindaco donna “sindaco” e gli importa solo che sappia fare bene il suo dovere e non che sia uomo o donna. Testi sterilizzati, disinfettati, candeggiati nella grammatica e nel dizionario di un nuovo idioma che però ancora puzza di ideologia perché concepito non per far parlare bene, ma per far tacere.
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