Se il governo nega il diritto di andare in chiesa
Si può andare in chiesa solo se si è sulla via per andare al lavoro, al supermercato, in farmacia. Così il ministero dell'Interno ha risposto alla richiesta di chiarimenti da parte della Cei: un criterio inaccettabile, contrario anche alla Costituzione.
Non si finisce mai di stupirsi davanti alle assurdità della burocrazia ministeriale. E anche stavolta, sulla questione della possibilità di accesso alle chiese per pregare, non si sono smentiti. Scrive il ministero dell’Interno che si può andare ma solo se si è sulla strada per andare al lavoro, dal medico, in farmacia o al supermercato. Un criterio assolutamente inaccettabile che contrasta non solo con la lettera dei decreti fin qui pubblicati dal governo, ma anche con la Costituzione.
La questione è quella che abbiamo raccontato ieri: i decreti fin qui emanati, formalmente e in punta di diritto, concedono il libero accesso alle chiese da parte dei fedeli che vogliono pregare, ovviamente nel rispetto del criterio di “rarefazione sociale”, ovvero stando a distanza di sicurezza (clicca qui). Senonché polizia e carabinieri – abbiamo sentito molte questure e commissariati - sono convinti che invece in chiesa non ci si possa andare perché non espressamente previsto nelle autocertificazioni fin qui pubblicate; e quindi fermano o multano i fedeli che lo fanno. Prova ne sono le tante testimonianze che giungono da ogni parte d’Italia, per non parlare dei veri e propri abusi di cui vi abbiamo raccontato: Cerveteri (clicca qui) e l’ultimo, Giulianova (clicca qui).
Proprio per cercare di chiarire la questione, il portavoce della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), monsignor Ivan Maffeis, aveva ripetutamente sollecitato il Ministero dell’Interno a dare una risposta precisa in merito. L’altro giorno aveva avuto un via libera verbale, ma solo ieri a tarda sera è arrivata la risposta scritta, trasmessa anche alle prefetture. Due pagine che lasciano a bocca aperta per le disposizioni che vengono date.
Monsignor Maffeis aveva posto tre domande: la prima riguardava la possibilità per un fedele di uscire di casa, munito di autocertificazione, per andare in chiesa; la seconda si riferiva ai riti pasquali: in sintesi, «per garantire un minimo di dignità alla celebrazione», si chiede che alla liturgia possano accedere oltre al celebrante, un diacono, lettore, accolito, organista, corista e operatori per la trasmissione; terzo quesito, sul perché siano permessi i matrimoni in comune e non in chiesa.
A quest’ultima domanda, la Direzione Centrale degli Affari dei Culti, parte del Dipartimento per le Libertà civili e l’immigrazione, nella persona del capo dipartimento Michele Di Bari, risponde (clicca qui per il testo della lettera) che i matrimoni sono consentiti anche in chiesa «alla sola presenza del celebrante, dei nubendi e dei testimoni». Quanto alle liturgie pasquali via libera alle presenze minime per garantire una celebrazione dignitosa (anche se ci sarebbero questioni rilevanti da sollevare sulle affermazioni contenute nella lettera).
Ma è soprattutto sul primo punto toccato che dobbiamo soffermarci. Dice infatti la lettera del capo dipartimento, dopo aver considerato ovvio che «l’apertura delle chiese non può precludere alla preghiera dei fedeli» (ovvio cosa che fioccano multe e denunce?): «Al fine di limitare gli spostamenti dalla propria abitazione, è necessario che l’accesso alla chiesa avvenga solo in occasione di spostamenti determinati da “comprovate esigenze lavorative”, ovvero per “situazioni di necessità” e che la chiesa sia situata lungo il percorso, di modo che, in caso di controllo da parte delle forze di Polizia, possa esibirsi la prescritta autocertificazione o rendere dichiarazione in ordine alla sussistenza di tali specifici motivi».
In pratica possiamo andare in chiesa a pregare solo se siamo sulla strada per fare qualcos’altro di riconosciuto come necessario. Stando alla lettera di quanto afferma il ministero dell’Interno, quindi, non c’è un diritto a recarsi in chiesa per pregare, e non ci si può andare se non abbiamo la chiesa sulla strada per andare al lavoro o al supermercato. L’ingresso in chiesa è solo una pratica tollerata e pesantemente limitata. Viene cioè riconosciuto il diritto ad andarsi a comprare le sigarette, ma non quello di andare a pregare (malgrado le chiese siano vuote). Siamo di fronte ad affermazioni gravi che ledono pesantemente la libertà religiosa, così come garantita dalla Costituzione, e conseguenza di una concezione esclusivamente materialistica dell’uomo, per cui contano soltanto le necessità materiali.
È una questione che va ben oltre le restrizioni legate all’emergenza coronavirus e indica una linea di pensiero che si applica a ogni ambito della libertà religiosa e di culto, con conseguenze facilmente immaginabili.
Peraltro le argomentazioni del ministero dell’Interno sono anche contraddittorie: nel concedere infatti il via libera alle liturgie pasquali con un minimo di ministranti e ai matrimoni, si ribadisce che il senso del provvedimento restrittivo è quello di evitare assembramenti, per cui celebrazioni liturgiche con poche persone, distanziate fra loro, sono ammissibili. E allora perché, con lo stesso criterio, non ci può essere libero accesso alle chiese per pregare? Di più: perché non permettere le Messe feriali che, mediamente, hanno lo stesso numero di partecipanti di un matrimonio limitato a nubendi e testimoni?
Siamo di fronte a direttive illogiche e discriminatorie nei confronti dei cattolici. E non è solo una questione circoscritta alle risposte del ministero dell’Interno. Lo stesso decreto legge del 25 marzo che abbiamo già commentato (qui e qui) presenta diversi punti problematici anche dal punto di vista della costituzionalità, come fa rilevare una lettera dell’associazione Avvocatura in Missione (leggi qui) che fa appello ai parlamentari perché correggano il testo.
Per quanto possa sembrare assurdo, il testo del decreto, così come è scritto - sostiene l’avvocato Anna Egidia Catenaro, presidente dell’associazione - potrebbe consentire di bloccare anche le Messe senza popolo e le celebrazioni trasmesse via social. Una possibilità che alla luce di quanto accaduto a Giulianova (parroco e sindaco denunciati per la cerimonia di affidamento della città alla Madonna trasmessa su Facebook) non è affatto peregrina.
Di fronte a questi soprusi che – ripetiamo – hanno conseguenze che vanno ben oltre la contingenza del virus, ci vuole una reazione decisa sia da parte dei vertici ecclesiastici sia da parte dei politici, chiamati a far rispettare le libertà costituzionali. Non bastano le pressioni del pur volenteroso portavoce della Cei, è lo stesso presidente dei vescovi, il cardinale Gualtiero Bassetti, che deve far sentire la sua voce forte e chiara. Non si chiede di creare pericoli per la salute pubblica, ma di riconoscere la libertà religiosa e l’uguaglianza dei cittadini così come garantita dalla Costituzione.
Ma qui ci scontriamo con un piccolo, o forse grande, problema: non solo in generale i vescovi sono stati finora zitti davanti ai soprusi che pure sono balzati agli onori della cronaca, ma ricordiamo che è stata la stessa presidenza della Cei a paventare unilateralmente la chiusura delle chiese lo scorso 12 marzo. Fu il giorno in cui furono effettivamente chiuse a Roma salvo poi riaprirle il giorno dopo per un ripensamento del Papa (clicca qui). Nella nota attribuibile al cardinale Bassetti (“Una Chiesa di terra e di cielo”) si diceva espressamente che si sarebbero potute chiudere le chiese «non perché lo Stato ce lo imponga, ma per un senso di appartenenza alla famiglia umana».
Si capisce allora la debolezza con cui la Cei sta affrontando il problema in questi giorni, quando ci sarebbe bisogno di una leadership autorevole. D’altra parte, visto che sono in gioco le libertà costituzionali dei cittadini, è importante che anche i politici intervengano con decisione, ammesso che qualcuno sia preoccupato della deriva totalitaria verso cui il nostro paese sta scivolando.