Ora il governo può chiudere le chiese. Vescovi, ci siete?
Il decreto legge presentato dal presidente del Consiglio Conte il 24 marzo contiene una inquietante novità: la possibilità di chiudere le chiese. E, sebbene il linguaggio sia poco chiaro, potrà essere anche un sindaco a deciderlo. Un passo di arroganza ingiustificata, una decisione inaccettabile, nel merito e nel metodo. Ma qualcuno nella Chiesa farà sentire la sua voce?
Aggiornamento: la versione finale del decreto legge del 25 marzo corregge in parte il comma h) dedicato ai luoghi di culto (clicca qui), così come appariva nella bozza disponibile fino a ieri pomeriggio. È stato tolto il riferimento alla chiusura, resta la limitazione all'accesso. Tiriamo un sospiro di sollievo? Fino a un certo punto, perché l'indirizzo politico è chiaro. E il silenzio della Chiesa pure. Ci ritorneremo domani.
Dopo il decreto del presidente del Consiglio di ieri, l’ultimo della serie, un qualsiasi Peppone, sindaco di un qualsiasi comune italiano, potrà far chiudere le chiese. Al punto h) il decreto parla di “sospensione delle cerimonie civili e religiose, limitazione dell’ingresso nei luoghi destinati al culto, nonché completa chiusura degli stessi”.
Non si era mai parlato di “chiusura” nei precedenti decreti. Era stato il vicariato di Roma a decidere per la chiusura, poi rientrata con strascico di polemiche. Ma il governo non aveva parlato di chiusura dei luoghi di culto. Aveva parlato di “limitazione o sospensione di manifestazioni … anche di carattere culturale, ludico, sportivo, ricreativo e religioso” al che, come noto, i vescovi italiani avevano deciso, senza molti distinguo e troppo in fretta, di sospendere le messe con popolo. Ma nessuno poteva far chiudere le chiese. Ora questo qualcuno può.
Ci si chiede: chi è questo qualcuno? E soprattutto: con quale criterio potrà farlo? Il decreto afferma che le misure tra cui la chiusura delle chiese possono essere assunte “per periodi predeterminati, ciascuno della durata non superiore a 30 giorni, reiterabili e modificabili anche più volte fino al 31 luglio 2020 e con possibilità di modularne l’applicazione in aumento ovvero in diminuzione secondo l’andamento epidemiologico del predetto virus”.
Qui si parla della durata dei provvedimenti, ma chi prende la decisione e con quale criterio? Sembra dirlo l’articolo 2): tali misure “possono essere adottate, secondo criteri di adeguatezza specifica e principi di proporzionalità al rischio effettivamente presente su specifiche parti ovvero sull’intero territorio nazionale”. Queste disposizioni non sono per niente chiare. Si può presumere che il riferimento alle “specifiche parti del territorio nazionale” conferisca il potere di chiudere le chiese ai sindaci e ai governatori regionali, mentre il riferimento all’”intero territorio nazionale” conduca al governo centrale. Ma si tratta di una presunzione.
Per quanto riguarda i criteri, le espressioni ”adeguatezza specifica” e “principi di proporzionalità” sono assolutamente generiche e possono essere interpretate soggettivamente. In un comune potrà bastare un caso di positività al coronavirus per chiudere le porte delle chiese, in un altro non saranno ritenuti sufficienti 500 casi. Se il sindaco è Peppone si chiude tutto, con o senza casi di infezione. La discrezionalità qui la fa da padrona. Il decreto trasforma i poteri locali in podestà democratici dalla cui decisione dipende se si possa andare in chiesa a dire una preghiera. Una eventuale decisione di questo genere non è nemmeno impugnabile, data l’imprecisione del suo contorno legislativo.
Ci stiamo avvicinando alla Settimana Santa. Il fatto che in questo periodo e nel giorno di Pasqua le porte delle chiese possano essere chiuse per decisione di qualcuno, per di più non ben precisato e senza criteri trasparenti, è decisamente inaccettabile, nel merito e nel metodo. Per tutti coloro che vorrebbero andare - con mascherina, guanti di lattice e a debita distanza - in chiesa per una preghiera, ma anche per tutti coloro che per timore decidessero di non farlo pur desiderandolo, le porte sbarrate darebbero un senso di abbandono e di desolazione.
Nei decreti precedenti le celebrazioni religiose venivano paragonate alle sale giochi e messe sullo stesso piano delle discoteche. Ora ne viene resa possibile addirittura la chiusura senza un quadro normativo preciso, ma assegnandone la facoltà a imprecisati soggetti e sulla base di imprecisati criteri. Per questo gli occhi sono ora puntati sui vescovi, per vedere se diranno qualcosa davanti a questo ulteriore passo di arroganza ingiustificata.
Che il governo, in momenti di necessità e urgenza, possa legiferare è previsto dalla Costituzione. Molti osservatori però fanno presente che questo governo sta sospendendo molti articoli della Costituzione tramite nemmeno un decreto-legge, ma semplicemente tramite un decreto amministrativo del presidente del Consiglio. Nel caso della chiusura delle chiese prevista dall’ultimo decreto, poi, stabilire lo stato di necessità e di urgenza è devoluto ad attori che potranno prendere decisioni assolutamente soggettive nella mancanza di criteri oggettivi.
Questo modo di fare preoccupa molti e se i vescovi dovrebbero dire qualcosa, qualcosa dovrebbe dire anche il presidente Mattarella. I presidenti della Repubblica hanno sempre incalzato i governi a non abusare dello strumento del decreto-legge, col quale il potere esecutivo si sostituisce al legislativo. Forse una parola potrebbe metterla anche ora, a proposito di questo uso di decreti del presidente del Consiglio.
Queste nuove disposizioni sulla possibile chiusura delle chiese confermano la confusione tra i poteri dello Stato, con un Parlamento in quarantena, ministri che si riuniscono in teleconferenza, comunicati del governo che arrivano su facebook a tarda sera del sabato, decreti il cui testo non si trova nei siti istituzionali se non con grande fatica. La gente è isolata e molti non parlano che con i propri familiari. Il rischio è di non sapere chi deve decidere, o che chi deve decidere si trovi in quarantena e non possa farlo, o un black-out impedisca a chi deve riunirsi virtualmente per decidere di farlo, o che decida chi non deve decidere.