Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
La riflessione

Scuola, si riscopra cosa vuol dire insegnare

Ascolta la versione audio dell'articolo

La riforma del 1977 ha reciso le radici della scuola e dell’insegnamento collocandoli all’interno di un orizzonte prevalentemente produttivo ed economicistico. Ma il vero maestro non è un burocrate del sapere, bensì aiuta la maturazione della persona, guidandola alla verità e quindi alla salvezza.

Educazione 27_09_2025

Dopo la lunga pausa estiva, le lezioni sono da poco ricominciate e stanno facendo discutere, sulla stampa specializzata dedicata alla scuola, i ripetuti interventi di Massimo Recalcati, psicoanalista e saggista, appassionato di educazione giovanile e fortemente critico nei confronti del sistema di istruzione italiano. In occasione del Festival della Filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo, svoltosi in questi ultimi giorni, Recalcati è tornato a parlare del rapporto tra allievo e maestro, affermando che «la scuola uccide l’apprendimento con regole standardizzate, servono maestri veri che parlino solo di ciò che davvero li appassiona».

Con molta lucidità, forte della sua esperienza ventennale nelle università italiane, lo psicoanalista ha messo il dito nella piaga del nostro tempo e della nostra scuola, offrendo interessanti spunti di riflessione. È evidente: nonostante il crescente disagio del mondo giovanile, che si manifesta in molteplici forme (bullismo, autolesionismo, dipendenze varie, isolamento, violenza, apatia, eccetera), il problema non sono tanto i giovani, quanto gli adulti. Mancano adulti, e dunque anche insegnanti, che siano in grado di trasmettere non solo conoscenze e competenze spendibili nel mondo del lavoro, ma innanzitutto valori profondi, orizzonti di senso, desiderio di verità. Parole desuete nel mondo dell’istruzione, poiché da anni, ormai, il sistema è totalmente piegato alle logiche economico-produttive.

Basti pensare che prima del varo della legge n. 517/1977, la data di inizio di tutte le scuole era, in Italia, il primo ottobre, quando l’estate era ormai passata e non poteva sorgere il rimpianto di trascorrere belle giornate estive dentro bollenti aule scolastiche. Dato che l’1 ottobre viene celebrato San Remigio, i bambini di prima elementare erano detti "remigini”; poi si decise che era necessario fare più scuola per far fronte all’accresciuta complessità del vivere sociale e, soprattutto, perché – affermano gli economisti – ogni giorno in più o in meno di scuola incide sul Pil del Paese! Così furono fissati i nuovi calendari scolastici, con almeno 200 giorni di lezioni all’anno; fu anticipato l’inizio delle lezioni a metà settembre circa (in date decise anno per anno dalle singole Regioni) e furono abolite alcune festività religiose infrasettimanali. Da allora non fu più possibile chiamare “remigini” i nuovi alunni di prima elementare, mettendo “finalmente” in archivio questa tradizione tanto legata a un mondo (cristiano) ritenuto ormai in via di estinzione…

Quanto fu stabilito nel 1977 segna la data di una profonda mutazione culturale in realtà ormai avvenuta, che andava a collocare la scuola e l’insegnamento (e anche l’educazione, cui l’insegnamento deve essere intimamente legato) all’interno di un orizzonte prevalentemente produttivo ed economicistico, recidendone definitivamente le radici. Il significato della parola “scuola”, infatti, si colloca proprio sul versante opposto, poiché deriva da “scholé” (σχολή), termine greco che significa "tempo libero", "ozio", o "luogo dove si trascorre il tempo libero", e si riferiva al tempo dedicato ad attività piacevoli, allo studio, alla riflessione o alla filosofia, piuttosto che al lavoro o agli obblighi.

Certo, si tratta di un modello di scuola che non esiste più, però sussisteva ancora, almeno nelle intenzioni e nell’immagine condivisa socialmente, l’idea di una formazione culturale utile alla crescita e maturazione della persona tout court, rendendo ragione così anche dell’intimo rapporto tra istruzione ed educazione, e per questo il legame con gli esiti in campo lavorativo era decisamente più blando, meno pressante anche per gli studenti. Oggi invece pare diventato questo il core business del sistema nazionale di istruzione, tanto che sono messe a tema esplicitamente, anche all’interno dei programmi di studio, le competenze che occorrono per un inserimento efficace e fruttuoso nel sistema economico-produttivo, sia che si tratti di attività tecniche-operative, sia che si tratti di figure destinate ad incarichi intellettuali di alto profilo. L’educazione della persona, da parte sua, è stata parcellizzata in una molteplicità di educazioni particolari (alla salute, all’inclusione, alle pari opportunità, finanziaria, sessuale, all’affettività, all’accoglienza, al rispetto, e chi più ne ha più ne metta), trasformandosi sostanzialmente in una sorta di “addestramento” mirato.

Sono molto opportune, allora, le provocazioni giunte da Recalcati, perché il malessere che si sta manifestando con crescente virulenza nel mondo giovanile non potrà certamente essere risolto con il caleidoscopio delle educazioni proposto in questi anni dal Ministero dell’Istruzione. Anzi, come è ormai evidente dai risultati e come ha sottolineato lo stesso psicanalista, «l’insistenza genera resistenza: mangia, mangia, mangia, produce disturbi alimentari; studia, studia, studia, genera disaffezione».

È necessario, allora, tornare innanzitutto a considerare cosa significa veramente insegnare, e perché il vero insegnamento è così intimamente connesso all’educazione; per farlo, è di grande aiuto tener presente il significato originario della parola: il suo etimo in latino è infatti insignare, che vuol dire “incidere, imprimere dei segni”, composto da in- e signare. Colui che insegna non è chiamato, dunque, a travasare dei contenuti da un recipiente all’altro, né a dare semplicemente risposte preconfezionate, ma innanzitutto a porre dei segni (e tutta la realtà è “segno”) che permettano al discente di fare un percorso di ricerca e conoscenza. Occorre intercettare il cuore dei giovani che si hanno dinanzi, destando il loro intimo desiderio di verità. Senza questa precondizione, non può esserci un vero cammino di apprendimento e di crescita.

È un compito terribilmente delicato e importante, una vera e propria missione, poiché è il terreno su cui si gioca il futuro di una società. In un’epoca segnata dalla crisi della scuola, dalla sfiducia verso le istituzioni formative e dall’invadenza della tecnologia, un’epoca che, come dice Recalcati, «sputa sui padri, sull’autorità simbolica e anche sui maestri, occorre tornare a fare un elogio del maestro». È indispensabile che gli insegnanti tornino anche a ricoprire quel ruolo di “maestri” di cui c’è urgente bisogno. Ricordiamo che la parola "maestro" deriva dal latino magister, che a sua volta viene da magis, col significato di "di più" o "molto", con l'aggiunta del suffisso comparativo -ter. Quindi, "maestro" può essere inteso come "colui che è di più", "il più grande", ovvero il più esperto e competente sì in una materia, ma soprattutto in “umanità”. Insomma, un ruolo centrale: non burocrate del sapere o, peggio ancora, manutentore di “ingranaggi” del sistema economico, ma testimone di cultura, libertà, passione, ricerca della verità.  L’insegnante “maestro” dovrebbe anche essere colui che spinge chi apprende a reinventare ciò che ha imparato. Il sapere non è completo, infatti, finché non diventa esperienza incarnata: è nel confronto con il reale che lo studente smette di essere un semplice contenitore di nozioni e diventa soggetto del proprio sapere, facendone una bussola personale.

Del resto, questo è anche il metodo di Dio, che è il più grande educatore che esista, e Gesù è il vero Maestro! E qui vale la pena sottolineare l’enorme importanza e responsabilità dell’insegnante cristiano, che ha il compito non solo di presentare la propria materia all’interno di questo orizzonte gnoseologico, ma è chiamato anche ad essere lui stesso “segno” della presenza di Qualcuno di più grande, che dà consistenza e senso alla sua persona e alla sua vita. Un in-segnante cristiano che sia egli stesso segno, infatti, diventa capace – poiché strumento che si lascia usare dalle mani di un Altro – di guardare e trattare con più umanità i propri alunni e di introdurli (attraverso la scoperta e la conoscenza di un aspetto particolare della realtà: la sua materia) alla ricerca del senso e della verità delle cose, facendo diventare la scuola un vero luogo di crescita umana e culturale.

Del resto, se la scuola non diventa essa stessa uno strumento per camminare sulla via della Verità, e dunque anche della Salvezza di cui tutti abbiamo bisogno, fallisce il proprio compito, e oggi, purtroppo, è necessario ribadire che la nostra scuola statale è assai lontana dall’impostazione sin qui descritta; proprio per questo è così importante la sopravvivenza delle scuole cattoliche. Certo, l’insegnante cristiano è chiamato a essere testimone ovunque si trovi a operare, ma in una scuola che ha una identità cristiana è senz’altro più favorita la collaborazione con i colleghi e con tutta la comunità educante (in primis i genitori). Si tratta di una condizione indispensabile per sostenere la crescita intellettuale, umana e anche spirituale, di persone desiderose di contribuire al bene comune, la cui massima espressione non è tanto (benché auspicabile) una società civile ordinata e prospera, ma è una società fondata sulla carità e sull’amore. Questo è il fuoco di cui, forse senza averne piena consapevolezza, parla anche Recalcati laddove, a proposito dell’apprendimento, fa riferimento al «modello dell’incontro con il fuoco, con qualcosa che lascia il segno».

In questi tempi bui caratterizzati da relativismo, apostasia, indifferentismo religioso, sembra un compito improbo, ma con l’aiuto di Dio, con il fuoco dello Spirito che arde nel cuore, tutto è possibile.