Sciopero della fame di Cospito, il Cnb in un vicolo cieco
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Il Comitato Nazionale di Bioetica (CNB) risponde al quesito del Ministero sullo sciopero della fame di Cospito che vuole spingersi fino alla morte. Lo Stato o il medico ha il dovere di intervenire contravvenendo alle Dat? No, dal punto di vista giuridico, ma dal punto di vista morale le cose cambiano. Chi si astiene dall'impedire il suicidio di una persona, collabora alla sua morte.
Il 6 febbraio scorso il Ministero della Giustizia ha posto alcuni quesiti al Comitato Nazionale di Bioetica (CNB) che riguardavano, seppur implicitamente, la scelta di Alfredo Cospito, attualmente in carcere, di digiunare come forma di protesta contro il 41 bis.
Il CNB, come si evince da un comunicato stampa di lunedì scorso, correttamente non entra nella vicenda specifica di Cospito, ma formula alcuni pareri di carattere generale attinenti al rifiuto delle terapie, per poi concentrare l’attenzione proprio sul tema dello sciopero della fame. Tutti i componenti del CNB sono d’accordo sul fatto che chiunque, detenuti compresi, ha il diritto, morale e giuridico, di rifiutare qualsiasi terapia e qualsiasi mezzo di sostentamento vitale come l’idratazione e la nutrizione assistite, anche se ciò può portare alla morte. In caso di pericolo di vita, secondo il CNB e secondo la legge 219/17, si può intervenire a salvare il paziente o il detenuto solo se costoro non hanno espresso la volontà di rifiutare trattamenti salvavita, in caso contrario devono essere lasciati morire.
Se questo è corretto dal punto di vista giuridico, perché corrisponde alle indicazioni della legge 219, dal punto di vista morale – e il CNB è tenuto a formulare pareri di carattere bioetico – non è invece condivisibile. Chi, potendo, si astiene dall’impedire il suicidio di una persona collabora o formalmente o materialmente in modo illecito alla sua morte. Ciò è vero eccetto il caso in cui l’impedimento provocherebbe più danni di quelli che si vogliono evitare (salvo una persona che vuole affogare trascinandola su una piccola imbarcazione già strapiena di persone che così rischia quasi sicuramente di colare a picco). L’intervento coattivo per curare una persona che vuole morire rifiutando terapie salvavita o idratazione e nutrizione assistite si fonda sulla legittima difesa: difendo il paziente da se stesso. La prospettiva del CNB, invece, privilegia il solito principio di autodeterminazione a discapito del principio di indisponibilità della vita.
Poi il CNB passa ad analizzare il tema del digiuno come forma di protesta. In prima battuta giudica positivamente questa modalità di dissenso: “Lo sciopero della fame è espressione di autodeterminazione della persona. […] Dalla valutazione etica sopra esposta discende immediatamente la conseguenza che lo Stato non ha il diritto di limitare con misure coercitive lo sciopero della fame, che costituisce, come si è detto, un segno dell’incomprimibile libertà di ogni essere umano. Pertanto, non sono ammissibili trattamenti diretti a favorire il benessere fisico del detenuto che si traducano in costrizioni violente”. Il CNB correttamente poi specifica che chi fa lo sciopero della fame, in genere, non digiuna per morire, ma per protestare. Nel primo caso, aggiungiamo noi, il digiuno sarebbe eticamente riprovevole, nel secondo caso, se la protesta è orientata fini leciti e se il gioco vale la candela, no. Dunque, continua il CNB, lo sciopero della fame deve essere rispettato.
Ma cosa fare se il digiuno compromette seriamente la salute del detenuto? Questa la risposta del CNB: “Con il rispetto del rifiuto di alimentarsi devono essere naturalmente garantite a chi ha scelto questa forma di protesta/testimonianza, sempre previo consenso da parte sua, l’assistenza appropriata e le terapie idonee a curare gli scompensi organici e le patologie che dovessero insorgere”. Ciò significa che, se il detenuto, come indicato dal CNB, volesse rifiutare le terapie idonee a scongiurare la morte, ex lege 219 e secondo quanto espresso nella parte inziale del parere del CNB, i medici non potrebbero intervenire e dunque dovrebbero lasciarlo morire. Soluzione, come abbiamo visto, moralmente non condivisibile.
Infine evidenziamo una contraddizione. Si tratta del caso in cui un detenuto che digiuna perde i sensi ed è in pericolo di vita e, inoltre, non ha espresso nessuna volontà su come i medici debbano comportarsi in questa situazione. Inizialmente il CNB a maggioranza ribadisce, secondo il principio del favor vitae, che il detenuto debba essere curato, ma poi, nel parere condiviso da tutti, cambia opinione dato che non riesce a trovare una risposta soddisfacente: “L’indicazione di ciò che è doveroso fare nel momento in cui un detenuto in sciopero della fame dovesse perdere conoscenza o sopravvenisse un imminente pericolo di vita senza poter esprimere decisioni consapevoli si presenta come il problema più delicato e complesso”. Perché non applicare il principio del favor vitae anche al caso dello sciopero della fame? Perché, così ipotizziamo, secondo il CNB non si può escludere che alcuni detenuti accettino anche di morire iniziando a digiunare e dunque tale decisione dovrebbe essere rispettata: lo sciopero della fame protratto ad oltranza potrebbe di per sé esprimere questa volontà di rischiare anche di morire. In tale caso questi detenuti non potrebbero venire alimentati forzosamente e/o rianimati perché la loro condizione, dal punto di vista giuridico, sarebbe equiparata a quei pazienti che accettano di morire perché non vogliono più essere alimentati e idratati artificialmente, perché non vogliono più essere “attaccati” ad una macchina.
Però su altro fronte e di contro, potremmo invece trovarci di fronte ad un detenuto che invece vorrebbe essere soccorso e salvato, ma che non è più in grado di comunicare questa sua volontà. E quindi come comportarsi non sapendo quali sono le volontà del detenuto incosciente? Il CNB non trova soluzione. Dal punto di vista giuridico la soluzione invece c’è: la volontà di non essere curato deve essere chiara e formulata in modo specifico, sia oralmente che per iscritto, e non vale invece nessun comportamento concludente, come appunto lo sciopero della fame, da cui dedurre presunte volontà suicidarie. Perciò in dubio pro vita.
Il CNB, incardinando le sue argomentazioni sul principio di autonomia, entra invece in un vicolo cieco. Tale vicolo cieco mette in luce tutta la debolezza di fondare l’esercizio della professione medica sulla libertà del paziente e non sul principio di beneficienza, ossia, al di là del fatto che il paziente incosciente se fosse desto vorrebbe morire o vivere, il medico comunque interviene per strapparlo alla morte.
C’è infine un parere sposato dalla maggioranza dei membri del CNB che appare alquanto curioso. Partiamo da un caso simile al precedente: un detenuto, dopo molto tempo che sta portando avanti lo sciopero della fame, perde i sensi e rischia di morire. Lo stesso aveva redatto le Disposizioni anticipate di trattamento (Dat) in cui chiedeva, in casi come il presente, di non ricevere assistenza. Qui avremmo una certificazione delle volontà del detenuto che, per legge, dovrebbero essere rispettate. Per la maggioranza dei componenti del CNB invece quelle Dat non hanno valore: “Le DAT – così si legge nel parere - sono incongrue, e dunque inapplicabili, ove siano subordinate all’ottenimento di beni o alla realizzazione di comportamenti altrui, in quanto utilizzate al di fuori della ratio della L.219/2017”. Tradotto: se rifiuti trattamenti salvavita per motivi di salute, esempio: non vuoi più sottoporti a chemioterapia perché troppo gravosa, allora le Dat hanno valore giuridico, ma se rifiuti trattamenti salvavita per motivi non sanitari, bensì politici, come potrebbe essere nel caso di Cospito, le Dat non vanno rispettate perché perdono valore giuridico e perdono valore giuridico perché tale motivazione, non essendo attinente all’ambito sanitario, esula dalla ratio della legge 219.
L’interpretazione non è condivisibile perché per la legge 219 qualsiasi motivo è valido per rifiutare i trattamenti sanitari, proprio perché la legge non fa parola alcuna sulle motivazioni legittimanti il rifiuto delle cure. Quindi non ci può essere sindacato alcuno sulle ragioni per cui una persona vuole morire rifiutando di essere curato. Poi non si comprende il motivo per cui le Dat che esprimono la volontà di rifiutare alcuni trattamenti per motivi non attinenti alla sfera sanitaria sono invalide, invece se questa stessa volontà per questi stessi motivi è espressa direttamente dalla persona deve essere rispettata. Due pesi e due misure.