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Sarah: ordinare preti sposati è una catastrofe pastorale

Nel libro "Dal profondo del nostro cuore", il cardinale Sarah tira le conseguenze degli insegnamenti di Benedetto XVI, soprattutto alla luce del Sinodo amazzonico cui è stato presente. Nell'«ammorbidire» il celibato sacerdotale, dice Sarah, si provoca la devastazione anzitutto per i fedeli, perché verrebbero privati del segno visibile che il sacerdote appartiene totalmente a Dio. Il problema è in alcuni vescovi occidentali e sudamericani che vivono il celibato come peso. E spara contro un presunto «diritto all'Eucaristia»: «Una comunità che venga formata con l’idea di un “diritto all’Eucaristia” non sarà più discepola di Cristo».
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Ecclesia 17_01_2020 English Español
Il cardinale Sarah

Il Cardinale Robert Sarah si pone nella scia degli insegnamenti che il Papa emerito ha offerto nel libro "Dal profondo del nostro cuore" al centro della controversia e durante tutto il suo Pontificato. Non si tratta di un uso forzato di quelle riflessioni, ma di un’integrazione alla luce di quanto il Cardinale ha potuto vivere durante il recente Sinodo: «Durante il Sinodo sull’Amazzonia, mi sono preso il tempo di ascoltare le persone che operano sul campo e di parlare con dei bravi missionari. Questi scambi hanno rafforzato in me l’idea che la possibilità di ordinare degli uomini sposati rappresenterebbe una catastrofe pastorale, una confusione ecclesiologica ed un oscuramento nella comprensione del sacerdozio».

Nel suo intervento, Sarah mostra grande lungimiranza circa gli effetti che l’indebolimento del celibato provocherà nella Chiesa, in ragione di quell’appartenenza ontologica del celibato al sacerdozio, messa in evidenza dall’espressione luminosa e decisa di Benedetto XVI: «Mai un Papa – osserva il cardinale - ha espresso con una tale forza la necessità del celibato sacerdotale».

Le conseguenze saranno devastanti anzitutto per i fedeli, perché verrebbero privati del segno visibile che il sacerdote appartiene totalmente a Dio, appartenenza che fonda e sorregge la sua donazione ai fratelli. Sarah parla per esperienza e racconta di quando, giovane sacerdote, si recava nei villaggi sperduti della Guinea, constatando la fedeltà di quelle comunità cristiane che da anni non ricevevano la visita di un sacerdote. Quella lunga astinenza sacramentale ebbe l’effetto di suscitare in loro la fame e la sete dei sacramenti. Sarah ricorda come «attraversando le paludi su piroghe di fortuna [...], o guadando torrenti pericolosi, nei quali temevamo di essere inghiottiti, ho avvertito fin nel mio corpo la gioia di essere interamente donato a Dio e disponibile, consegnato al suo popolo».

In queste esperienze concrete, egli poté essere testimone della gioia «dell’accoglienza di un sacerdote in un villaggio africano che riconosce in lui il Cristo-Sposo: quale esplosione di gioia! Quale festa!». Queste povere popolazioni non avevano studi storici o teologici alle spalle; eppure proprio loro, i poveri ed i semplici «sanno riconoscere con gli occhi della fede la presenza di Cristo-Sposo della Chiesa nel sacerdote celibe». Toccare con mano nella propria vita questo infallibile sensus fidei «guarisce per sempre da ogni forma di clericalismo» e da qualsiasi idea che il celibato sia «un fardello troppo pesante da portare».

E’ questa, secondo il Cardinale, la ragione alla base della “rinuncia” a difendere il celibato obbligatorio: «Ho l’impressione che per alcuni vescovi occidentali o anche dell’America del Sud, il celibato sia divenuto un peso. Essi vi restano fedeli, ma non trovano il coraggio di imporlo ai futuri sacerdoti ed alle comunità cristiane, perché è per loro motivo di sofferenza». Ma si tratta di un terribile errore di prospettiva, perché «il celibato sacerdotale ben compreso, anche se può essere a volte una prova, è una liberazione».

Il cardinal Sarah risponde anche a quanti hanno cavalcato il diritto all’Eucaristia, che ogni comunità cristiana deterrebbe: «Il sacerdozio è un dono che si accoglie, come si accoglie l’Incarnazione del Verbo. Non è né un diritto né un obbligo. Una comunità che venga formata con l’idea di un “diritto all’Eucaristia” non sarà più discepola di Cristo», perché il fedele che non riconosce nell’Eucaristia un dono, ma un diritto, «mostra che non è capace di comprenderla». Questa «logica di rivendicazione eucaristica», più che espressione del pensiero delle comunità cristiane dell’Amazzonia, è frutto «di ossessioni la cui sorgente si trova negli ambienti teologici universitari», in quelle «ideologie portate avanti da qualche teologo che vorrebbe servirsi delle difficoltà dei popoli poveri come di un laboratorio sperimentale per i propri progetti di apprendisti stregoni», finendo così per privarli di un «potente motore d’evangelizzazione», quale è appunto il celibato.

Per questo la Chiesa, fin dalle origini, non ha temuto di esigere la continenza ai candidati agli ordini sacri. Il Cardinale denuncia la «disonestà intellettuale» di quanti continuano a ripetere che nella Chiesa ci sono sempre stati preti sposati: «E’ vero. Ma erano tenuti alla continenza perfetta». E parimenti, la scusa che l’Oriente cristiano da sempre ha avuto un clero uxorato, si scontra con la realtà storica, in quanto esso «ha ammesso solo tardivamente che gli uomini sposati divenuti sacerdoti potessero avere rapporti sessuali con le proprie mogli», ovvero nel concilio in Trullo del 691, a causa di un «errore nella trascrizione dei canoni del concilio che si era tenuto a Cartagine nel 390». Quanto al fatto che le Chiese orientali continuino ad avere un clero uxorato, il cardinale propone una riflessione che armonizza la verità storico-teologica con la prudenza che viene dalla carità e dalla conoscenza della natura umana: «Penso che questa accettazione [dei sacerdoti sposati] abbia come obiettivo di favorire un’evoluzione progressiva verso la pratica del celibato non per via disciplinare, ma grazie a delle motivazioni propriamente spirituali e pastorali».

Tutta la Chiesa ha bisogno del sacerdote celibe, perché, senza la sua presenza, «la Chiesa non può più prendere coscienza di essere la Sposa di Cristo». Il celibato può essere autenticamente compreso e vissuto solo all’interno della logica della donazione sponsale; per tale ragione matrimonio e celibato sono intimamente congiunti: «Se l’uno è messo in discussione, l’altro vacilla», come già aveva messo in evidenza Benedetto XVI, nella veglia in piazza San Pietro con i sacerdoti, nell’anno a loro dedicato. Il rischio allora è che proprio laddove il matrimonio è in crisi o è deformato, l’indebolimento del celibato finisca per fiaccare ancora di più la testimonianza del «dono di sé assoluto».

Sarah prende posizione anche di fronte alla proposta del diaconato femminile, chiarendo che le diaconesse dei primi secoli «non partecipavano al sacramento dell’Ordine» ed era loro interdetto «qualsiasi servizio all’altare durante la liturgia». Quello che si sta portando avanti oggi è il frutto di «un falso femminismo», che cede alla «tentazione che mira a clericalizzare le donne». Esito del clericalismo è anche pensare di fondare delle comunità esclusivamente sulla presenza di persone ordinate ad ogni costo, anziché puntare su una vera formazione dei catechisti; un’ossessione che in fondo cozza con il richiamo del Vaticano II alla vocazione del laicato e rischia di minare l’autentico «dinamismo battesimale».

Sarah risponde con grande buon senso anche a quanti si aggrappano al fatto che nella Chiesa esistano già delle eccezioni riguardo al celibato obbligatorio: «Un’eccezione è transitoria per definizione e costituisce una parentesi nella condizione normale e naturale delle cose. Ma questo non è il caso di una regione remota in cui vi è carenza di preti», perché si tratta di una condizione che ha sempre caratterizzato i paesi di missione ed oggi anche l’Occidente. Allora, è chiaro che «l’ordinazione di uomini sposati, fossero anche in precedenza diaconi sposati, non è un’eccezione, ma una breccia, una rottura nella coerenza del sacerdozio».

Non regge neppure l’argomento di chi ritiene che il celibato sia estraneo a certe culture, perché «non esiste cultura che la grazia di Dio non possa raggiungere e trasformare».

La medicina per questa malattia mortale che sta colpendo il sacerdozio, la sua identità, la sua integrità e la fecondità vocazionale è quella che la Chiesa ha sempre utilizzato per risolvere le crisi che ha incontrato nella propria storia: «Non si risolverà la crisi del sacerdozio indebolendo il celibato. Al contrario, sono convinto che l’avvenire del sacerdozio si trova nella radicalità evangelica», che ha la sua anima in una rinnovata e profonda vita di preghiera «assidua, umile, confidente». Perché il sacerdozio, ricorda Sarah, richiamando un intervento di Ratzinger, è un carisma che viene dall’Alto: «Separando il celibato dal sacerdozio, giungeremo a non cogliere più il carattere carismatico del sacerdozio». Questa “miopia” impedirà di cogliere il mistero stesso della Chiesa: «Il celibato – conclude Sarah – è un baluardo che permette alla Chiesa di evitare la trappola che la porterebbe a comprendersi come un’istituzione umana, le cui leggi diverranno l’efficenza e la funzionalità».