Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
IRAQ

Rahho, il vescovo martire di Mosul dimenticato da Roma

A dieci anni di distanza dalla barbara uccisione, la figura dell'arcivescovo di Mosul resta un esempio di grande pastore che ha dato la vita per Cristo, custodendo, proteggendo per anni le persone a lui affidate. Il suo testamento: «Non chiedete nulla, non ho nulla: io appartengo a Cristo e alla Chiesa».

Libertà religiosa 14_03_2018
Il ricordo di monsignor Rahho nella chiesa di San Paolo a Mosul

Il 13 marzo 2008, nei pressi del cimitero nel distretto di Karama, venne ritrovato il corpo martoriato di monsignor Paul Faraj Rahho, arcivescovo di Mosul. Era stato rapito due settimane prima da una banda di terroristi islamici poco dopo l'uscita dalla chiesa. Nell'azione furono uccisi l'autista e due collaboratori che accompagnavano monsignor Rahho. Per la Chiesa irachena è considerato veramente un martire», ha detto il patriarca di Babilonia dei Caldei, monsignor Louis R. Sako.

Il 13 marzo ricorreva il decimo anniversario del martirio di uno splendido testimone di Cristo. Uno fra i primi martiri del terzo millennio, e forse il primo vescovo cattolico ucciso nel terzo millennio: l’arcivescovo di Mosul Paulos Faraj Rahho. Per me è stata una grande grazia conoscere questo grande uomo. L'ho conosciuto da piccolo come mio insegnante di catechismo, poi come padre spirituale, quindi come arcivescovo di una arcidiocesi perseguitata, e come uno straordinario esempio di come seguire Cristo, servirlo e dare la propria vita per Lui. Nella mia vita ho incontrato e conosciuto moltissime persone, fra cui anche tanti martiri, ma nessuno ha segnato così profondamente la mia vita come ha fatto questo arcivescovo martire.

Nel lontano 1988, l’ho incontrato per la prima volta a Mosul, al Monastero di San Giorgio. In quel periodo, portava a quel Monastero ogni venerdì per il catechismo i ragazzi della parrocchia che egli aveva fondato, la parrocchia di San Paolo. Ed io con molto piacere partecipavo alle lezioni. Inoltre, veniva spesso anche a celebrare la Santa Messa domenicale ed io facevo il chierichetto e il servizio sudiaconale. E rimanevo sempre colpito dal suo modo di insegnare e predicare. Era infatti un sacerdote pieno della gioia evangelica e dello zelo apostolico.

Un fatto che non potrò mai dimenticare è ciò che una volta ha fatto a me e a tre miei compagni - ero allora seminarista - durante un ritiro spirituale. Alla fine del ritiro, ha portato l’acqua e ha cominciato a lavare i nostri piedi, e ci ha chiesto di lavare l'uno i piedi dell'altro. E poi ci ha detto che il rito della lavanda dei piedi non dobbiamo farlo solo una volta nell’anno, cioè nel Giovedì Santo, ma più spesso. Perché questo rito ci fa ricordare che siamo servi di Cristo e dobbiamo servire i nostri fratelli come Egli ci ha serviti e ha sacrificato la propria vita per noi. Così, anche mons. Rahho ha servito e ha sacrificato la propria vita per Cristo. Nonostante siano passati circa 17 anni dal giorno in cui mons. Rahho ha lavato i miei piedi, ogni volta che leggo il brano dal Vangelo che ci racconta la lavanda dei piedi degli Apostoli da parte di Gesù (Giovanni, 13, 1- 17), e soprattutto quando lavo i piedi al Giovedì Santo, mi commuovo e non riesco a trattenere le lacrime, ricordando quel gesto dell’arcivescovo. E penso a quanto potessero essere commossi i discepoli nel momento in cui Gesù, il Figlio Di Dio, ha lavato loro i piedi.

Mons. Rahho è stato nominato arcivescovo di Mosul dei Caldei nel 2001, ed è stato fedele a questo compito fino alla fine. Ha seguito l’esempio del Buon Pastore, Nostro Signore Gesù. Ha servito la sua arcidiocesi con tutto il cuore, e ha dato la propria vita per cercare, difendere e custodire le sue pecore perseguitate dai lupi.

Quando sono stato ordinato sacerdote a Mosul il 10 settembre 2004, l’arcivescovo Rahho era presente alla mia ordinazione, insieme a due sacerdoti, Paulos Eskander (decapitato a Mosul l’11 ottobre 2006) e Ragheed Ganni (ucciso a Mosul il 3 giugno 2007), che successivamente vengono assassinati dai terroristi islamici. E molte persone presenti in quella celebrazione, hanno subito successivamente una terribile persecuzione. Ma il culmine della persecuzione e dell’odio contro cristiani è stato con l’invasione dello Stato Islamico in Iraq e Siria, che ha portato più miserie e distruzioni a tutti i livelli e ha cancellato la presenza cristiana a Mosul.

Ma proprio quando parliamo della miseria e della distruzione di Ninive, non dobbiamo dimenticare mai la testimonianza dell’arcivescovo Rahho. Quando egli predicava l’amore, il perdono, la solidarietà, il rispetto dei diritti, l’unità del paese, gli altri lo deridevano e pensavano che tutto quello che diceva non era altro che un segno della debolezza. Ma dopo la distruzione di tutto, come conseguenza dell’odio, hanno capito che la forza dell’amore è invincibile e durerà per sempre, invece l’odio si autodistrugge.

Mons. Rahho, prima di morire da martire, ha vissuto da martire per più di cinque anni (2003-2008). Ha resistito contro i bombardamenti delle chiese, i rapimenti dei fedeli, le continue minacce di morte anche per scritto contro di lui e i fedeli, l’uccisione e la decapitazione dei sacerdoti e dei fedeli. Nonostante tutto ciò ha continuato fino alla fine a predicare il Vangelo senza paura, anzi con tanto coraggio e determinazione. Quel venerdì del 29 febbraio 2008, quando fu rapito, era andato a pregare la Via Crucis con i fedeli perseguitati della parrocchia dello Spirito Santo, che non aveva più un parroco. Padre Ragheed Aziz Ganni, che era il parroco, era stato ucciso il 3 giugno 2007 insieme a tre suddiaconi, Waheed, Basman e Ghasan, dopo aver celebrato la Santa Messa domenicale. Il motivo dell’uccisione era il suo rifiuto di chiudere la casa di Dio.

Così l’arcivescovo non ha voluto chiudere quella parrocchia neanche dopo l’assassinio del parroco, ma allo stesso tempo non ha voluto nominare un altro sacerdote in quella zona perché avfrebbe rischiato la sua vita. Egli ha preferito rischiare la propria vita invece che quella degli altri. Perciò andava lui direttamente in quella parrocchia per tutti i servizi pastorali. E quella sera del 29 febbraio 2008, dopo la Via Crucis, i terroristi hanno seguito la macchina dell’arcivescovo e hanno sparato, uccidendo tre giovani cristiani che erano insieme a lui, il suddiacono Faris, Rami e Samir, ed egli è stato rapito. E dopo due settimane, il 13 marzo 2008, è stato trovato il suo corpo senza vita, sepolto in una zona isolata a Mosul, e in un modo davvero non dignitoso.

Purtroppo, a dieci anni da quel drammatico evento, l’arcivescovo martire è quasi dimenticato, nessuna notizia dell’avvio del processo per la causa di beatificazione. Ma la cosa più triste è che la sua arcidiocesi di Mosul, per la quale ha sacrificato la sua vita, è quasi sterminata e la sua amata città e la piana di Ninive sono distrutte. Quello che invece ci consola è proprio la sua testimonianza, e le sue parole profetiche, vere e concretizzate con i fatti e sigillate con il suo sangue innocente.

Ascoltiamo allora, a dieci anni dal suo martirio, alcune sue parole, per non dimenticarlo e per imparare dal suo esempio come seguire Gesù ed essere testimoni del Vangelo della vita e della salvezza: 

“… Così, nella vita del cristiano, la croce non è più un qualcosa di eccezionale, ma è parte della consistenza della sua vita quotidiana. La sua presenza (cioè della croce) nella nostra vita non ci stupisce; al contrario, la sua assenza ci preoccupa”. (Da un suo articolo scritto nel 2000).

“I popoli sono sottoposti, oggigiorno, a guerre e piani distruttivi, e sulle nostre società galleggiano in superficie delle secrezioni negative, che cercano di distruggere tutta la civiltà, i valori, la morale umana e religiosa che c’è. Questo è quanto successo nella nostra amata patria l’Iraq, a seguito della guerra iraniana, con i paesi della coalizione, e la guerra dell’embargo che ancora aleggia sul nostro caro Iraq. Ma tra le spine e le erbacce, non potranno che spuntare, qua e là, rose e fiori, ed esserci segni profetici e indicazioni della presenza di Dio in mezzo al suo popolo dolente e sofferente”. (Da un suo articolo, scritto nel 2003).

“Io non voglio morire, ma voglio vivere attraverso il vostro lavoro”.
“E se io sono il piccolo chicco di grano e sono morto, voi siate il picco generoso del grano”.
“Ai miei fratelli, alle mie sorelle e ai loro figli (dico): non ho nulla. E tutto ciò che possiedo in terra, non appartiene a me. Non chiedete nulla. Io non ho niente. Io stesso appartengo al Signore e alla sua Chiesa. Non posso darvi ciò che non è mio. Quindi, non avrete qualcosa, perché io non possiedo nulla”.

(Dal suo Testamento, scritto nella Festa dell’Assunzione della Madonna; 15 agosto 2003).

“Quel che voglio dire anche ai cittadini, è che noi crediamo in Dio, e l’ultima parola non potrà essere del male, ma del bene; l’ultima parola non potrà essere dell’odio, ma dell’amore; l’ultima parola non potrà essere dell’inimicizia, ma della pace. Chiediamo a Dio perché venga la pace e la concordia nella nostra patria”. (Da un'intervista dell’agosto 2004, dopo diversi attentati simultaneicontro le chiese a Baghdad, Mosul e Kirkuk).

“La Chiesa dell’Iraq oggi, nel terzo millennio, è come se vivesse nel primo secolo dopo Cristo. La nostra Chiesa, o benedetti, vive il martirio (la testimonianza),e  la martirizzazione (la testimonianza del sangue). La nostra Chiesa oggi in Iraq è testimone e martire. Testimone con la propria fede, e martire col sangue dei suoi figli. Oggi noi ascoltiamo ancora il richiamo di nostro Signore Gesù: “Mi sarete testimoni” (Atti degli Apostoli 1,8). Nelle orecchie del nostro popolo cristiano in Iraq, oggi, risuona la parola di nostro Signore Gesù Cristo, a Lui la gloria: “… viene l'ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio. E faranno ciò, perché non hanno conosciuto né il Padre né me.  Ma vi ho detto queste cose affinché, quando verrà la loro ora, ve ne ricordiate, perché io ve l'ho detto” (Giovanni 16,2-4). Ecco, l’ora è venuta (Giovanni 17,1), E Gesù ce lo dice nuovamente. La nostra Chiesa è testimone di Cristo con la fede dei suoi figli, noi figli della Chiesa, la nostra missione oggi in questo paese è che dobbiamo essere sale per la terra che si è abbeverata del sangue dei nostri figli, e che dobbiamo essere luce in un mondo coperto da una inclemente nube nera, che non sappiamo quando si schiarirà.
Oggi dobbiamo ascoltare con chiarezza la voce del Signore che ci dice: Voi siete la luce del mondo, voi siete il sale della terra (Cf. Matteo 5,13-14). Dobbiamo rimanere come erano i nostri padri e i nostri nonni in questo paese che è il nostro paese, in questa terra che è la nostra terra, dobbiamo restare sale e luce. La nostra Chiesa è stata, e lo è ancora, attraverso le generazioni, martire di Cristo in un mondo dominato dal tradimento, dal caos, dalla frode, dalla menzogna, dall’inganno, in un mondo in cui prevale la legge della giungla, in un mondo feroce, in cui è assente ogni valore spirituale e umano, in un mondo controllato dalla barbarie, dall’inimicizia, l’ignoranza e il fanatismo odioso. Restiamo nella nostra terra o fuggiamo? Sì, restiamo. Oggi c’è chi ci dice, come dissero a Gesù: “Parti e vattene via di qui, perché Erode ti vuole uccidere” (Luca 13,31). Fuggì forse, Gesù? No, ma rispose: “Andate a dire a quella volpe: Ecco, io scaccio demòni e compio guarigioni oggi e domani; e il terzo giorno la mia opera è compiuta” (Luca 13, 32). … Chiediamo al nostro amato Ragheed e compagni di pregare per noi, noi che siamo ancora sulla via del martirio, perché il Signore abbia misericordia di noi. Che il loro sangue puro possa essere seme di vita per la nostra Chiesa in questa amata patria”.
(Omelia del 6 luglio 2007, nell’occasione del quarantesimo giorno del martirio di padre Ragheed Ganni e dei suoi tre compagni).

Giornalista: Monsignore, è possibile raccontarci quanto accaduto la mattina di domenica 25 marzo scorso (2007)? Come i terroristi hanno cercato di rapirla e hanno puntato la pistola contro il suo petto, mentre lei si rifiutava di sottostare ai loro ordini?

L’Arcivescovo: Sì, gli ho detto che non uscivo dalla macchina. E mi ha detto: “Allora ti sparo”. Poi non ha sparato. Perché ha visto che c’era una forza. E’ possibile che non fossero preparati a prendermi, hanno avuto paura della zona, perché la zona era nella Mosul vecchia. Può essere che abbiano avuto paura di fare qualcosa, no…può essere che quelle persone fossero della zona stessa, e non abbiano voluto che scoppiasse uno scandalo! E di certo Dio c’era, in mio aiuto, perché mi ha salvato da loro…

Giornalista: dal 2003 ad ora, ogni giorno abbiamo minacce ed attentati, e anche lei ha rischiato il rapimento. Un cristiano addolorato ha scritto un articolo che ha pubblicato sulla pagina di Ankawa, in cui dice: “Non le basta, Monsignore?”. In altre parole: quando se ne andrà?

L’Arcivescovo: Io me ne andrò per ultimo. Noi contiamo sull’ausilio di Dio e di Nostra Madre la Vergine Maria. Perché il giorno in cui mi sono venuti contro, il 25 marzo (2007), era la festa della Nostra Madre Maria Vergine; era l’Annunciazione, e stavo andando alla Chiesa di Meskenta. Cioè, tutti questi santi, non ci faranno magari un po’ di bene, voglio dire! Noi contiamo sull’ausilio di Dio. Dio è Colui che ci conserva, insieme ai santi. E chiediamo le vostre preghiere.

Giornalista: Amen, Monsignore. Grazie molte”. (Dall’intervista fatta qualche giorno prima del suo rapimento; febbraio 2008).

“Quindi, cari fratelli benedetti, vi invito a pregare. Innanzitutto, affinché noi diciamo che questo è il nostro Paese. Secondo, affinché diciamo che rimarremo qui. I nostri antenati sono rimasti qui nonostante tutte le persecuzioni, e anche noi rimarremo perché questo è il nostro Paese. Nonostante tutto il sangue versato per la loro fede in Cristo, i nostri padri e antenati sono rimasti qui. Su questa terra è germogliata [la fede], e noi restiamo e rimaniamo saldi nella nostra fede”. (Dalla sua ultima omelia, il 7 gennaio 2008, nella chiesa di San Paolo a Mosul, sotto le macerie, dopo il secondo attentato contro quella chiesa. La chiesa di San Paolo verrà successivamente profanata, distrutta e persino le sue pietre verranno rubate dall’ISIS. E la pietra tombale dell’arcivescovo martire Rahho, che aveva desiderato essere sepolto lì, sarà distrutta).