Quella ostinata voglia di morte
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C'è un tale accanimento di medici e giudici nel volere la morte di Indi Gregory - così come avvenuto in altri casi passati - che non si può giustificare con ideologia, concezione dello Stato, orgoglio corporativo...
C’era poco da illudersi, lo avevamo detto nei giorni scorsi. Anche se la battaglia per la sua vita andava fatta ed è giusto che si lasci uno spiraglio alla speranza, il destino di Indi era segnato fin dall’inizio di questa storia. Lo abbiamo già visto nei casi precedenti – Charlie, Alfie, Isaiah, Archie, Sudiksha, ... –, quando i medici decidono per la morte del paziente, tutto il Sistema si compatta se le famiglie provano a mettere ostacoli. Il Potere mantiene una apparenza di democraticità consentendo ricorsi, appelli e ancora controricorsi e controappelli, ma tutti finiscono invariabilmente allo stesso modo: medici, giudici, perfino le forze dell’ordine si spalleggiano l’uno con l’altro, per dare una impressione di giustizia a quella che invece è una esecuzione arbitraria. E se qualcuno prova a interferire dall’estero – sia un organismo dell’ONU come fu per Archie o il governo italiano, come è stato per Indi e Alfie – il Sistema britannico semplicemente lo ignora: il Regno Unito non riconosce altro potere se non il proprio.
Ma quel che maggiormente colpisce è l’accanimento nel volere la morte, e nel volerla alle proprie condizioni: un qualsiasi compromesso o soluzioni alternative sono categoricamente escluse. Fino a sfidare l’evidenza, la logica, il buon senso. E allora è giusto chiedersi il perché.
I giudici hanno avallato la narrazione dei medici che parlavano di Indi come di una bambina in grave sofferenza, per la quale il prolungamento della vita sarebbe stato solo una inutile e crudele agonia. Anche questo è un copione già visto, eppure c’era l’evidenza di una situazione ben diversa: i video e le foto diffuse dai genitori, Dean e Claire, mostrano una bambina che non dà segni di sofferenza o di disagio, che non soffre dolori tremendi, che anzi reagisce agli stimoli per quello che la malattia le consente. Non può guarire certo, ma si può curare fino a che sopravvenga la morte naturale.
Allora forse il problema è economico? È il costo sociale di questi malati che possono occupare per settimane e mesi un posto in terapia intensiva togliendo risorse per curare persone che hanno invece speranza di guarire? Si direbbe di no: nel caso di Indi, così come era accaduto per altri in precedenza, lo Stato britannico ci avrebbe pure risparmiato perché spese di trasferimento e ricovero in altre strutture non avrebbero pesato sui contribuenti britannici. Per Indi sarebbero stati totalmente a carico del governo italiano e dell’Ospedale Bambin Gesù, e anche nei casi precedenti le famiglie avevano garantito zero costi per lo Stato britannico.
Certo, possiamo mettere in conto l’orgoglio nazionale e il senso della propria sovranità, che uscirebbero ammaccati dal dover riconoscere che un altro Paese è in grado di offrire servizi e terapie non disponibili nel Regno Unito. Se i genitori di Alfie e Indi speravano di venire in Italia, la 19enne Sudiksha aveva già un posto disponibile in Canada o negli Stati Uniti. Ma può bastare questo a spiegare l’epilogo scontato di questi casi? Può giustificare che lo Stato si impadronisca della vita dei cittadini a cui non viene concessa neanche la possibilità di una seconda opinione pur all’interno dei confini britannici?
A questo proposito si potrebbe ancora osservare che è anche l’altra faccia dello Stato assistenziale: nel Regno Unito lo Stato garantisce tutto, dalla nascita alla morte, il National Health Service (il servizio sanitario nazionale) è un vanto, è il fiore all’occhiello del Paese. Ma la generosità dello Stato ha un prezzo: si delega anche la propria salute, al punto che anche i referti degli esami e delle analisi sono in mano al distretto sanitario, il paziente non possiede nulla, la comunicazione è da dottore a dottore. E alla fine sono i medici a decidere della vita dei pazienti.
Ma ancora questo non è sufficiente per spiegare l’accanimento. O meglio, forse si potrebbero comprendere i medici, feriti nel loro onore, ma certo non i giudici. Eppure sabato scorso i giudici chiamati a decidere sul luogo dove Indi sarebbe dovuta morire sembravano come lupi feroci a cui qualcuno stesse cercando di strappare dalla bocca la preda già conquistata. È stata una udienza drammatica, che abbiamo raccontato in sintesi, che si è risolta in una lunga e dura requisitoria contro gli avvocati che difendevano le ragioni dei genitori di Indi: una grave intimidazione contro coloro che osavano intralciare il piano predisposto, che ritardavano con la loro opposizione un destino già deciso. Perché anche i giudici ci tengono così tanto che Indi non sopravviva?
Mettiamoci anche l’elemento ideologico, una visione meschina del senso della vita, ridotto a puro criterio efficientista: se la qualità della vita scende sotto un certo livello allora diventa inutile, non vale la pena di essere vissuta, è solo un fardello per la società e quindi va eliminata. Certamente medici e giudici in questione pensano così, ma davvero può bastare tutto questo a giustificare tanta ferocia? Al punto che anche le forze dell’ordine si coinvolgono, come già avvenne anche per Alfie, per garantire che null’altro si frapponga all’esecuzione della sentenza di morte?
Dopo aver seguito tanti casi del genere, a noi tutte queste ragioni – ideologia, concezione dello Stato, orgoglio corporativo – continuano a non apparire sufficienti. C’è un qualcosa che sfugge e che non si vede in superficie, forse delle ragioni inconfessabili. Non siamo ovviamente in grado di andare oltre questa sensazione, ma questa voglia ostinata di morte non può non renderci inquieti.