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Dottrina sociale
a cura di Stefano Fontana

Amoris Laetitia

Quella frase problematica di Francesco sulla coscienza

Nell’esortazione apostolica Amoris laetitia (n. 37), c’è una frase molto citata da teologi e predicatori, che per una parte è verissima, per l’altra interpretabile in modo ambiguo. Vediamola.

Dottrina sociale 02_08_2023

Una frase espressa da Francesco nell’esortazione apostolica Amoris laetitia (n. 37) è molto citata dagli addetti ai lavori, soprattutto dai teologi moralisti, ma anche nelle omelie dei parroci e dagli educatori cristiani.

Essa dice: «Siamo chiamati a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle». La prima parte della frase è verissima. La coscienza è un atto della nostra intelligenza pratica che conosce la norma morale e la situazione concreta in cui operare e orienta quindi la volontà a fare il bene. Ambedue i versanti in cui è chiamata ad impegnarsi richiedono alla coscienza di formarsi. Conoscere la norma morale implica lo sforzo paziente di acquisire le conoscenze dell’intelletto attorno al bene e al male, conoscenze che la coscienza non si inventa. Essa non crea la norma morale, ma la apprende e per farlo bisogna educarsi a farlo.

Questo della formazione della coscienza è un tema centrale per poi determinare la responsabilità personale. Se una persona compie il male ignorando completamente che si tratti di male, può non essere ritenuta responsabile di averlo fatto. Ma se quella persona non ha fatto niente per formare la propria coscienza al bene in quel determinato settore dell’agire umano, allora può essere ritenuta responsabile del male commesso perché in precedenza non era stata responsabile della propria formazione. Si badi bene: poiché la conoscenza delle norme morali fondamentali avviene per “connaturalità”, risulta piuttosto difficile provare la propria invincibile ignoranza. La prima parte della frase quindi è certamente vera, importante e preziosa.

Una certa ambiguità emerge invece nella seconda parte: «Non pretendere di sostituirle», infatti, può assumere il significato di non dare insegnamenti morali assoluti, davanti ai quali la coscienza non abbia da svolgere nessun ruolo autonomo, ma sia chiamata all’obbedienza. Si nota qui una velata accusa alla Chiesa di un tempo, che sarebbe intervenuta eccessivamente nell’orientare le coscienze. Questa interpretazione, oggi molto diffusa, non è condivisibile. La dottrina morale, filosofica e teologica, dice alla coscienza cosa fare e questo fa parte della formazione della coscienza, che se rimanesse astratta non varrebbe a nulla. Quando poi la dottrina morale dice cosa fare di bene, dà sì insegnamenti assoluti, ma davanti ad essi la coscienza non ha un ruolo passivo, perché il bene lo si può fare in molti modi e la coscienza, che con la virtù della prudenza e con altri aiuti conosce le pieghe particolari della situazione, deve cercare di essere creativa.

Quando poi la dottrina morale dice alla coscienza che certe azioni non sono mai ammissibili perché intrinsecamente cattive, la coscienza deve obbedire: però, ancora una volta, questo non vuol dire passività, ma vera libertà. Scriveva Gomez Davila che «l’intelligenza non mira ad emanciparsi, ma a sottomettersi. La verità è il risplendere della necessità». La coscienza che obbedisce alla verità morale, sottoponendosi ad essa, non è passiva e inerte perché il suo scopo non è di emanciparsi dalla verità bensì di obbedirle.

Nella teologia morale cattolica di oggi, la concezione della coscienza sta cambiando. Si pensa che una coscienza che obbedisce non sia emancipata né libera, ma oppressa; e per questo la seconda frase che stiamo esaminando viene quasi sempre interpretata come se la ragione e la Rivelazione dovessero ad un certo punto fermarsi dal dire alla coscienza come stanno le cose, per non offenderla o privarla di alcune sue prerogative. Capita purtroppo che la Chiesa stessa faccia oggi così, limitandosi a formare (ammesso poi che lo faccia veramente) ma senza dire tutta la verità sul bene. Di che formazione si tratta, allora? (Stefano Fontana)