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STUDIO SCIENTIFICO

Quel legame tra il Covid-19 e le famiglie italiane

Secondo un recente studio scientifico, l'elevato tasso di anzianità della popolazione è uno dei maggiori motivi per cui l'Italia primeggia per letalità del Covid-19. Mentre invece gli ampi contatti intergenerazionali che caratterizzano le famiglie italiane, favoriscono in modo diretto e indiretto, la diffusione del virus. Da qui si giustificano le misure di protezione più aggressive.

Famiglia 23_03_2020

Si intitola «La scienza demografica aiuta a comprendere i tassi di diffusione e mortalità di COVID-19». Si tratta di uno recente studio elaborato da alcuni ricercatori appartenenti al Leverhulme Centre for Demographic Science dell’Università di Oxford e del Nuffield College. La ricerca, che nella raccolta dati si ferma al 13 marzo scorso, non vuole mettere a confronto tutti gli elementi che concorrono alla diffusione della pandemia e comprendere quali siano i più determinanti, ma indicare quanto il fattore della stratificazione demografica per età e alcune abitudini sociali possano incidere nella diffusione epidemica e nel tasso di letalità, precisando, con la dovuta precauzione, che, dal momento che la pandemia è ancora in corso, le conclusioni espresse nello studio medesimo dovranno essere soggette a future revisioni.

Tali conclusioni possono essere così espresse: l’età incide sul tasso di letalità e i contatti intergenerazionali, bambini-giovani-adulti con anziani, influiscono sulla diffusione e, quindi, sul tasso di letalità.

In merito al primo aspetto, lo studio in prima battuta ricorda che «l'Italia è una delle popolazioni più vecchie al mondo con il 23,3% della popolazione con età superiore ai 65 anni, rispetto al 12% della Cina». Al 20 marzo il tasso di letalità in Italia era di 8,5% sul totale dei casi fin qui accertati, non sul totale dei contagiati (se ci riferissimo a questo ultimo numero, la percentuale di letalità diminuirebbe di gran lunga). Il tasso di letalità mondiale è invece intorno al 4%. La maggior parte dei decessi ha riguardato persone anziane e persone anziane con una o più patologie pregresse (la differenza tra percentuale italiana e mondiale è motivata anche da fattori diversi dalla età come illustreremo tra breve).

L’articolo scientifico, su questo preciso aspetto, conclude affermando che, quindi, il tasso di anzianità della popolazione italiana può essere uno dei motivi per cui l’Italia primeggia per tasso di letalità rispetto ad altri Paesi. Ad esempio in Africa, ad oggi, i casi sono ancora esigui. In Nigeria, paese in cui le persone over 80 rappresentano lo 0,2% della popolazione, i casi accertati al 21 marzo sono 12, con zero morti e un ricoverato. Dati pur sempre interessanti a prescindere dalla affidabilità delle rilevazioni condotte sul campo in questi paesi in via di sviluppo.

Oltre a questo motivo legato al tasso di anzianità della popolazione, c’è anche - aggiungiamo noi - un dato relativo alla metodica di rilevamento che può incidere nella comparazione tra percentuali di letalità italiane e percentuali di altri paesi. Ad esempio in Cina il tasso di letalità era riferito ad un numero di tamponi positivi significativamente maggiore rispetto al numero di tamponi da noi effettuati. Restringendo il denominatore, la percentuale aumenta. Inoltre non è escluso che alcuni Paesi registrino come morti da Covid solo quei decessi causati unicamente dal coronavirus, casi che sono assai rari (in Italia, al 20 marzo, siamo all’1,2%). Come contraltare dobbiamo però aggiungere che, sia a livello nazionale che globale, non è escluso che molte persone muoiano a casa esclusivamente per Covid (causa esclusiva) o per patologie aggravate da Covid (concausa) senza che poi venga fatto il tampone per stabilire se il virus avesse concorso alla morte della persona. Decessi che quindi sfuggirebbero al computo di “morti per Covid”.

Passiamo al secondo aspetto che riguarda le relazioni sociali. Lo studio così continua: «L'Italia è anche un paese caratterizzato da ampi contatti intergenerazionali che sono supportati da un elevato grado di vicinanza residenziale tra figli adulti e i loro genitori. Anche quando le famiglie intergenerazionali non vivono insieme, sono frequenti i contatti quotidiani tra coppie genitore-figlio non residenti». Quindi, maggiore è il numero di contatti, maggiore il rischio contagio. Ovviamente la prossimità intergenerazionale non ha, in questi frangenti, solo aspetti negativi, ma anche positivi: «questa vicinanza geografica garantisce alti tassi di solidarietà intergenerazionale reciproca, sia finanziaria che in natura». Insomma, ogni medaglia ha il suo rovescio.

I ricercatori inoltre aggiungono che molti italiani vogliono vivere vicino ai propri cari - cari che, in questo caso, vengono intesi non come moglie e figli, bensì come fratelli, genitori anziani, zii anch’essi anziani etc., - e quindi preferiscono fare i pendolari tra casa e luogo di lavoro piuttosto che trasferirsi nella città dove lavorano. «Secondo gli ultimi dati disponibili dell'Istituto nazionale di statistica italiano – continua lo studio - questo vasto pendolarismo interessa oltre la metà della popolazione delle regioni settentrionali». Dunque, maggiore spostamento, maggior possibilità di contagio per chi si sposta, il quale diventa così vettore di contagio per i parenti più anziani una volta che ha fatto ritorno a casa: «queste interazioni intergenerazionali, la co-residenza e i modelli di pendolarismo potrebbero aver accelerato l'epidemia in Italia attraverso la rete dei contatti sociali che hanno ridotto la vicinanza degli anziani ai casi iniziali». Dunque il modello ipotetico proposto vede le fasce più giovani entrare in contatto con il virus per prime perché socialmente più mobili e poi trasmettere il contagio alla popolazione più anziana che è più stanziale.

A questa conclusione se ne aggiunge un’altra: «le catene di trasmissione COVID-19 che iniziano nelle popolazioni più giovani possono avere un basso numero di casi gravi e quindi non essere rilevate per un tempo maggiore» con il risultato che i governi si attivano con maggior ritardo. Inoltre il ritardo, aggiungiamo noi, è anche motivato dal fatto che, oltre ad altre ragioni non di carattere epidemiologico sicuramente importanti, l’inizio del contagio nel nostro Paese è stato occultato dal picco della influenza stagionale che, avendo sintomi iniziali simili, si è sovrapposto temporalmente alla diffusione del Covid19.

L’articolo arriva alla conclusione «che i paesi con popolazioni più anziane dovranno adottare misure di protezione più aggressive per rimanere al di sotto della soglia dei casi critici che superano le capacità del sistema sanitario. Affinchè queste misure siano efficaci, un'attenzione speciale dovrebbe essere dedicata a quei gruppi di popolazione che sono più a rischio e ai modelli di contatto intergenerazionale». A tale ultimo proposito i ricercatori puntano la lente di ingrandimento sulla chiusura delle scuole: «mentre le scuole possono essere un centro di contatto e di trasmissione del virus, la chiusura delle scuole può inavvertitamente avvicinare nonni e bambini». Insomma la coperta è sempre troppo corta.

Interessante invece questa misura di prevenzione consigliata dai ricercatori: «la struttura per età delle popolazioni suggerisce anche che la generazione di adulti, spesso schiacciata “a sandwich” tra la cura degli anziani e dei giovani, è un collegamento importante per mitigare la trasmissione». Ciò a patto che gli adulti “sandwich” possano stare a casa, anche grazie agli aiuti economici dello Stato, in modo da evitare contatti esterni e al fine di prendersi cura di giovani e anziani. In caso contrario l’effetto sarebbe opposto a quello sperato.

L’articolo, verso la sua sezione finale e facendo tesoro delle argomentazioni prima articolate, ricorda infine l’ormai famoso strumento del distanziamento sociale: è «importante comprendere quante misure di distanziamento sociale debbano essere richieste all’interno di ogni popolazione al fine di ridurre il numero dei casi più critici e così evitare di sovraccaricare il sistema sanitario e "appiattire la curva"».