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IL BUON USO DELLE PAROLE / 16

Quando il silenzio è d’oro, anche in letteratura

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A volte è meglio tacere, per evitare che le proprie parole possano essere fraintese. Altre volte si deve tacere perché la situazione lo richiede o per ragioni morali. Silenzi vuoti e silenzi pieni. La figura retorica della reticenza e qualche celebre esempio letterario.

Cultura 27_05_2024
Pia de' Tolomei_ritaglio (Eliseo Sala)

«Un gran silenzio non fu mai scritto» mi diceva sempre la cara nonna Luigia. È una variante popolare del detto «Un bel tacer non fu mai scritto», proverbiale modo di dire da molti attribuito a Dante Alighieri o forse variazione di un verso di Iacopo Badoer, un librettista e poeta italiano vissuto nel XVII secolo. Forse non è possibile risalire all’autore del detto. Certo, però, già gli antichi sottolineavano l’importanza del silenzio e la sua efficacia spesso superiore a mille parole. Il commediografo latino Terenzio scrive nell’Eunuchus: «Tacent, satis laudant» ovvero «Tacciono e così facendo lodano».

A volte è meglio tacere, perché un atto di silenzio impedisce che parole pronunciate in modo improvvido e affrettato possano essere fraintese, male interpretate e riferite ad altri magari in una forma travisata. Altre volte si deve tacere perché la situazione lo richiede. Qualche volta, però, il silenzio impressiona, per esempio quando tante persone sono insieme rivolte stupite verso qualcuno. Questo silenzio cattura e sorprende, perché le persone raramente sono capaci di silenzi pieni.

I silenzi vuoti sono esito del disagio, del disappunto, dello sconcerto. I silenzi vuoti sono imbarazzanti, nessuno vorrebbe trovarcisi in mezzo. Ma i silenzi pieni sono di tutt’altra natura, li vorresti vivere sempre, perché ti strappano da te, dal tuo limite, dalla tua miseria per porti di fronte ad una presenza bella, inaspettata, ma del tutto desiderata. I silenzi pieni sono anche quelli che compaiono negli scritti e nei discorsi quando non è rispettoso raccontare o semplicemente non occorre o, ancora, quando basta una semplice parola o un’espressione o un verso perché la fantasia del lettore possa immaginare in maniera più artistica di mille parole.

Si chiama reticenza (dal latino reticere «passare sotto silenzio») la figura retorica che consiste nell’interruzione voluta di un enunciato, affidando al lettore il compito di immaginarne la conclusione. Possono essere i puntini di sospensione ad indicare la reticenza, ma altre volte è la presenza di una chiusura del discorso (come fosse un verso tombale) a demarcarla.

La reticenza non è omertà. Ne volete una prova? Guardiamo i celebri versi (solo sei in totale) del VI canto del Purgatorio in cui Pia de' Tolomei lascia di sé una memoria immortale: «Deh, quando tu sarai tornato al mondo/ e riposato de la lunga via […]/ ricorditi di me, che son la Pia;/ Siena mi fé, disfecemi Maremma:/ salsi colui che ‘nnanellata pria/ disposando m’avea con la sua gemma». Pia non racconta la sua morte: la conosce suo marito, colui che le ha promesso amore per sempre; chi volesse conoscere la fine dei suoi giorni, la chieda al coniuge. Il lettore comprende la violenza subita dalla donna e coglie anche il suo desiderio di non ripercorrere la storia di quella fine. Chiunque può immaginare la gravità della tragedia! Meglio lasciarla alla fantasia del lettore e alla misericordia divina.

Ancora più celebre è la reticenza di Francesca che, dopo aver recitato il monologo in cui si presenta, risponde alla domanda di Dante: «Al tempo d'i dolci sospiri,/ a che e come concedette Amore/ che conosceste i dubbiosi disiri?». Francesca ricorda che, mentre stavano leggendo la storia di Lancillotto e Ginevra, arrivati al punto in cui il cavaliere Lancillotto trovò il coraggio di baciare la regina Ginevra, anche Paolo baciò la cognata Francesca. «Quel giorno più non vi leggemmo avante». Forse il racconto di un poeta avrebbe potuto meglio far comprendere l’audacia con cui i due innamorati iniziarono ad abbandonarsi alla passione? Il verso tombale lascia correre la fantasia del lettore che può addirittura interpretarlo come l’istante in cui i due amanti trovarono la morte, sorpresi da Gianciotto, marito di Francesca.

L’endecasillabo dantesco «Quel giorno più non vi leggemmo avante» è sostituito dall’ottonario manzoniano «La sventurata rispose» ne I promessi sposi. Quando lo sciagurato Egidio, che vive in un’abitazione disposta davanti al convento della Monaca di Monza, vede la religiosa, le rivolge la parola. La religiosa allora gli risponde. La frase manzoniana, che ha la stoffa del verso poetico, è molto più ricca, più poetica, più potente di tutto il racconto che Manzoni aveva scritto nel Fermo e Lucia.

La grande magia del racconto sta nel sottaciuto e nel non raccontato, gran pregio anche di un autore come Verga che, al contrario di tanta narrativa contemporanea che ostenta il sesso e la morte, sa alludere e far immaginare. Nel racconto La Lupa, la protagonista femminile ottiene di allacciare una relazione con il genero Nanni e, poi, ritorna tante altre volte nell’aia per incontrarlo. Verga non mostra nessuna ostentazione morbosa, nessuna indulgenza alla passionalità, ma grande capacità sintetica, che emerge in dialoghi teatrali rapidi presentati nel cuore della novella in cui lo scrittore mette in scena la madre e la figlia che si accapigliano. Alla fine la giovane decide di rivolgersi al brigadiere per denunciare la madre. Nanni non cerca di discolparsi, anzi dichiara che «è la tentazione dell’inferno» ad indurlo ad un comportamento siffatto. Per questo preferisce andare in galera o morire piuttosto che cedere ancora alla seduzione della suocera. La Lupa, però, non vuole andarsene di casa fino a che non accade che Nanni, ricevuto un calcio da un mulo, rischia di morire e il prete rifiuta di portargli il viatico se la donna rimane nella casa col genero. Solo quando la Lupa se ne va, Nanni si confessa, contrito e dispiaciuto per tutto quanto è accaduto. Il giovane guarisce e la suocera torna a tentarlo. Allora Nanni minaccia di ammazzare la Lupa. Nella scena finale la morte non è raccontata. Tutti si immaginano l’ira omicida di Nanni senza che l’autore la descriva.

Dante e Manzoni non vogliono correre il rischio di raccontare per una questione morale. Ritengo che Verga taccia per altre ragioni. Descrivere tutto e varcare la soglia del vietato letterario significa spesso limitare la capacità del lettore di interagire con l’opera letteraria. Le grandi opere sanno dire e non dire, sanno qual è il limite oltre il quale può essere il lettore a viaggiare con l’immaginazione.

L’augurio è che anche la contemporaneità nelle diverse forme artistiche riscopra il fascino dell’immaginazione che sa viaggiare sulle scie dettate dalle poche parole dei grandi scrittori.