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L'INTERVISTA

Puccetti: "L'antidoto alla RU 486 possibile anche in Italia"

"Qualsiasi medico in possesso del ricettario regionale potrebbe prescrivere le iniezioni o le compresse di progesterone a carico del Sistema Sanitario pubblico per contrastare l'azione della RU 486 e interrompere l'aborto". Renzo Puccetti spiega alla NuovaBQ che pur non esistendo in Italia una Abortion Pill Rescue, basata su un protocollo che prevede la somministrazione di progesterone per capovolgere gli effetti della pillola abortiva e mantenere quindi la gravidanza, ogni medico potrebbe fare questa prescrizione salvavita.

Vita e bioetica 02_12_2018

Su questo quotidiano abbiamo già raccontato un paio di casi di bambini nati da donne che avevano assunto la RU486 e poi si erano pentite della scelta (vedi qui e qui) rivolgendosi a una rete di medici sorta negli Usa, l’Abortion Pill Rescue, che adotta un protocollo basato sulla somministrazione di progesterone per capovolgere gli effetti della pillola abortiva e mantenere quindi la gravidanza.

Abbiamo chiesto a Renzo Puccetti, medico specialista in medicina interna ed esperto di bioetica, di spiegarci meglio il funzionamento dell’intera procedura e se in Italia è in commercio un farmaco capace di invertire gli effetti della RU486.

Dottor Puccetti, secondo l’ultima relazione del ministero della Salute sull’applicazione della legge 194, nel 2016 ci sono stati in Italia 13.255 aborti ufficiali con la RU486 (erano 132 nel 2005), che il grande genetista Jerome Lejeune definiva «pesticida umano». Può dirci intanto come funziona questa pillola e perché, insieme alla soppressione del bambino, è pericolosa pure per le donne?
La RU486 è la sigla che indicò inizialmente il mifepristone. Si tratta di una molecola con proprietà anti-progestiniche e anti-glucocorticoidee. La prima attività è svolta attraverso un meccanismo di competizione per i recettori del progesterone verso cui ha un’affinità doppia rispetto al ligando naturale. Dunque una volta assunta, la RU486 inibisce l’azione di sostegno dell’endometrio svolta dal progesterone perché lo spiazza dai recettori, l’endometrio subisce una degenerazione ischemica e l’embrione muore per mancanza del necessario apporto in ossigeno e nutrienti. La questione della pericolosità è vera, ma va collocata nella sua giusta comprensione. La procedura dell’aborto è in sé una procedura a basso rischio medico immediato. L’aborto chirurgico nel primo trimestre ha una durata media inferiore ai 6 minuti, quello farmacologico si attua deglutendo una pillola. I dati in nostro possesso indicano una mortalità relativa 6 volte maggiore per l’aborto farmacologico, ma in termini assoluti la mortalità è 6 decessi per milione di casi trattati. L’aborto con la RU486 mostra anche un tasso maggiore di complicanze più che triplo ed è più doloroso per la donna.

Negli Stati Uniti è nata una rete di medici e altri operatori sanitari pro life, l’Abortion Pill Rescue, che ha l’obiettivo di informare le donne che si pentono dopo aver assunto il mifepristone contenuto nella RU486 e le aiutano a invertire la procedura abortiva: finora sono stati salvati così centinaia di bambini. Ci può spiegare in che cosa consiste questa procedura di inversione e in che percentuali si è rivelata efficace?
Concettualmente il meccanismo è molto semplice: si tratta di somministrare alla donna alte dosi di progesterone in modo da spiazzare la RU486 dai recettori dopo che questa aveva spiazzato il progesterone naturalmente prodotto dal corpo luteo. Una sorta di “arrivano i nostri” che rimette le forze in campo a vantaggio delle molecole della vita contro quelle della morte. Gli autori di questo protocollo hanno pubblicato uno studio osservazionale veramente ampio e ben fatto. Sono partiti da una casistica iniziale di 1.668 donne che avevano assunto il mifepristone ed erano interessate alla procedura di “inversione”, come è stato chiamato questo salvataggio del bambino. Per essere ammessa allo studio la donna doveva avere assunto la RU486 da non più di 72 ore e non avere assunto l’altra molecola prevista negli aborti farmacologici, il misoprostol, che aumenta il successo abortivo portandolo da un 75% circa con la sola RU486 ad un 95% con i due farmaci. Alla fine le donne che erano idonee al salvataggio del bambino ed hanno accettato di farlo potendone verificare tutto l’iter sono state 547. Ipotizzando un tasso di efficacia abortiva del 75% in queste donne si sarebbero dovuti avere 137 bambini naturalmente sopravvissuti alla RU486, ma l’aggiunta di progesterone ha portato a 257 nascite più altri 4 bambini che sicuramente erano vivi oltre la 20ª settimana, ma che sono stati persi al follow-up del parto.

Quindi, in base ai dati, l’aggiunta di progesterone in questa procedura salvavita risulta piuttosto efficace.
Sì, l’aggiunta del progesterone è in grado di raddoppiare la naturale resistenza del concepito all’attacco abortivo. Gli autori hanno dimostrato che le probabilità di sopravvivenza del bambino sono maggiori quanto più la gravidanza è avanzata e quando il progesterone è somministrato ad alte dosi per via iniettiva o per via orale, mentre la somministrazione vaginale è meno efficace. Quando il progesterone è stato somministrato per via iniettiva alla dose di 200 milligrammi al giorno per 7 giorni, gli autori hanno registrato tassi di sopravvivenza del bambino superiori all’80%. Si tratta di numeri veramente strabilianti.

In Italia abbiamo in commercio farmaci capaci di invertire gli effetti della RU486 ridando speranza a una mamma che si pente e vuole salvare il suo bambino?
Sì, l’indicazione è quella di un’insufficienza progestinica. Ho riflettuto un po’ e non credo che si tratti di un uso off-label del farmaco (l'impiego nella pratica clinica di farmaci al di fuori delle condizioni autorizzate dagli enti predisposti, ndr). Dal momento che la RU486 induce uno stato di insufficienza progestinica e le schede tecniche non distinguono tra insufficienza naturale ed insufficienza iatrogena quantunque volontaria, è mia opinione che non sia neppure necessario attivare i protocolli per usi dei farmaci al di fuori delle indicazioni ufficiali.

Come si può richiedere un farmaco simile e perché praticamente non lo sa nessuno quando si fa un gran parlare di «libertà di scelta» delle donne e di consenso informato?
Se la mia posizione è corretta, qualsiasi ginecologo e qualsiasi medico in possesso del ricettario regionale potrebbe prescrivere le iniezioni o le compresse di progesterone a carico del Sistema Sanitario pubblico. Ecco, quello del perché non lo sa nessuno è cosa che mostra la corda da un lato dello strabismo applicativo del consenso informato e della libertà di scelta, basta vedere i casi dei piccoli Charlie Gard e Alfie Evans, dall’altra mostra come rispetto agli Stati Uniti la rete pro-life in Italia debba recuperare in termini di mobilitazione e organizzazione. Se penso alla situazione di 10 anni fa il movimento pro-life ha fatto un cammino enorme, ma se devo indicare un obiettivo, io lo vedrei nella penetrazione nella coscienza della classe medica.

Alla rete pro vita dell’Abortion Pill Rescue aderiscono medici di altri 11 Paesi (Australia, Canada, Irlanda, Messico, Nigeria, Nuova Zelanda, Paesi Bassi, Slovacchia, Spagna, Sudafrica, Ucraina), oltre agli Stati Uniti. Non ci risultano medici italiani affiliati a questa rete, né ci risulta che via sia qualche associazione alternativa che si occupi nello specifico di prestare soccorso alle mamme che cambiano idea e vogliono invertire gli effetti della RU486. Eppure, visto l’aumento continuo di aborti chimici, ci sarebbe un gran bisogno di una simile rete di medici pro life capaci di intervenire quando occorre: quale può essere il punto di partenza per farla radicare sul territorio?
Come le ho detto, non c’è bisogno di specialisti, credo che si possa partire mettendo attorno ad un tavolo le 4-5 persone giuste per fare partire quest’operazione e salvare in questo modo vite umane. Mi preme sottolineare un punto: la narrazione abortista descrive una donna che arriva all’aborto dopo avere preso una decisione irrevocabile, magari sofferta, ma comunque da cui non torna indietro. Sappiamo dalla letteratura medica, e questo studio lo conferma, che esiste invece un’ampia zona di ambivalenza, dove alla donna giungono pensieri e istanze contrastanti. Lì, in quell’ambito, una parola in più o in meno decide di una vita umana, anzi no, decide di due vite umane, perché dopo avere abortito, quantunque la donna lo rimuova, quantunque lo riduca ad una pratica di rimozione di un fastidioso inconveniente, la donna non sarà mai più ciò che era prima.