Profanazione a San Pietro, un monito sulla sacralità perduta
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L'oltraggio avvenuto venerdì all'altare papale è il terzo episodio in due anni. Gesti che recano offesa alla santità del luogo: una dimensione pressoché dimenticata nel safari turistico che travolge basiliche e cattedrali.

Lunedì 13 ottobre il cardinale Mauro Gambetti, arciprete della Basilica vaticana, ha officiato un rito di riparazione per la profanazione avvenuta venerdì 10, quando un uomo è salito sui gradini della Confessione e, prima di venire fermato dal personale addetto alla sicurezza, ha fatto in tempo a calarsi i pantaloni e orinare contro l’altare papale sotto lo sguardo dei presenti. Restano ignote l’identità e la nazionalità del profanatore, posto in stato di fermo dalla Gendarmeria vaticana. Il fattaccio di venerdì è il terzo in poco più di due anni. Il 1° giugno 2023 un uomo nudo era salito in piedi sulla mensa dell’altare, mostrando sulla schiena una scritta pro Ucraina; due giorni dopo Gambetti procedette al rito di riparazione. Il 7 febbraio di quest’anno un altro si era arrampicato sull’altare gettando giù i candelabri. Episodi gravi che ripropongono la questione della sicurezza insieme a quella del ripetuto oltraggio nel cuore della Chiesa cattolica.
Stando ai resoconti riportati da varie testate pare che il Santo Padre si sia rivolto al cardinale arciprete in modo piuttosto incalzante – si parla di un incontro «tempestoso» –, sconcertato dall’atto del profanatore e anche dall’indugio nel procedere alla dovuta riparazione. Perché tanta fretta? È il Caeremoniale Episcoporum a stabilire che «all'ingiuria recata ad una chiesa si deve porre riparo il più in fretta possibile con un rito penitenziale; finché tale rito non sia stato compiuto, non si celebrino in essa né l'eucaristia, né gli altri sacramenti o riti liturgici» (1071). Qualsiasi giorno è buono «tranne che nel triduo pasquale, nelle domeniche e nelle solennità» (1073), pertanto già l’indomani, sabato, si sarebbe potuto compiere il rito slittato invece a lunedì.
Se l’increscioso fatto fosse avvenuto a Montecitorio o al Quirinale – per quanto elevata la sede istituzionale e grave l’offesa – non si parlerebbe di profanazione (se non in senso lato e traslato). L’aulico luogo sarebbe stato evidentemente ripulito, il vandalo arrestato, ma senza bisogno di alcuna liturgia riparatrice – necessaria invece non solo a San Pietro ma anche nella più sperduta pieve di campagna. Perché in una chiesa si lede uno spazio sacro, si reca «grave ingiuria ai sacri misteri» e – citando sempre il Caeremoniale – tali azioni «sono tanto gravi e contrarie alla santità del luogo da non essere più lecito esercitare in essa il culto finché l'ingiuria non venga riparata con un rito penitenziale» (1070)
A ricordare la «santità del luogo» a chi si apprestava a varcarne la soglia c’era – c’è – una frase ricorrente sui portali di tante antiche chiese: «Terribilis est locus iste», «Questo luogo è terribile», tratta dal libro della Genesi (28,17), nell’episodio del sogno di Giacobbe. Naturalmente quel «terribilis» non va inteso nella comune accezione italiana, come se al di là della scritta ci fosse una galleria degli orrori; forse gli anglofoni l’hanno tradotta meglio con «awesome», che include una sfumatura di significati, da eccezionale, a imponente a maestoso. Ma basta leggere il seguito della frase per coglierne il senso: «Questa è proprio la casa di Dio, questa è la porta del cielo». Lì dimora la Maestà divina e va da sé che l’oltraggio compiuto in quel luogo sia infinitamente più grave di quello compiuto altrove.
Paradossalmente la «santità del luogo» appare un ricordo lontano nelle grandi basiliche e cattedrali in balia del safari turistico, dove gli smartphone prevalgono sullo stupore e sparisce anche la percezione di quella “sacralità profana” dovuta quantomeno al patrimonio artistico. Persino quando è presente il vicario di Cristo quasi più nessuno lo vede direttamente, anche, soprattutto quando è vicinissimo: a fare da filtro non è la distanza, non sono i maxischermi, bensì i “minischermi”. Laddove riposano le ossa di Pietro, laddove hanno operato Michelangelo e Bernini (per citarne solo due) ci si aggira con la stessa sbadata nonchalance di quel turista austriaco che nel 2020, alla Gipsoteca di Possagno, in provincia di Treviso, ruppe alcune dita del piede (di gesso, beninteso) di Paolina Borghese per sedersi accanto a lei a fare un selfie.
Chissà che per una volta il presumibile sconcerto dei presenti alla vista della sacrilega minzione, non abbia improvvisamente ricordato loro la realtà dimenticata: «Terribilis est locus iste», quello non è un luogo come un altro. Se così non fosse, fatti simili sarebbero destinati a moltiplicarsi perché ciascuno si sentirà autorizzato a farla – in questo caso letteralmente – fuori dal vaso persino nel luogo più santo della cristianità, di profanazione in profanazione.
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