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CINA

Primi colpi di pistola a Hong Kong, nel 70mo del regime

I 70 anni della Repubblica Popolare Cinese sono stati celebrati a Pechino con un'imponente parata militare. Ad Hong Kong, invece, una contromanifestazione non è stata autorizzata. I manifestanti che sono ugualmente scesi in piazza si sono scontrati con la polizia. E per la prima volta c'è un ferito da arma da fuoco.

Esteri 02_10_2019
La protesta di Hong Kong: un appello agli Usa

I 70 anni della Repubblica Popolare Cinese sono stati celebrati a Pechino con una marcia di 15mila soldati, 100mila civili e 160 aerei, con uno sfoggio di disciplina di massa e nuovi armamenti, come da tradizione totalitaria. Contemporaneamente alla grande parata di Pechino, a cui assisteva anche Carrie Lam (capo dell’esecutivo di Hong Kong), nell’ex colonia britannica tutte le manifestazioni venivano vietate. La marcia di protesta si è svolta lo stesso ed è immediatamente degenerata in scontro con la polizia anti-sommossa. Per la prima volta, un manifestante è stato colpito e ferito da un proiettile vero e non da un proiettile di gomma.

Per manifestare contro la grande parata di Pechino, anche a Hong Kong occorreva una certa dose di coraggio. Con l’esercito e la polizia cinesi schierati e costantemente rafforzati a Shenzhen, al confine, c’è sempre il timore di un intervento militare. Contrariamente alla tradizione liberale ereditata dai britannici, la polizia non ha dato alcun permesso di indire manifestazioni in occasione del 70mo anniversario della Repubblica Popolare. Douglas Kwok, avvocato del Fronte civile per i diritti umani, aveva avvertito che la misura preventiva delle autorità avrebbe potuto sortire effetti ancora peggiori. In effetti, la tensione è continuamente crescente, nonostante Carrie Lam avesse già da settimane ritirato la legge sull’estradizione (che spianava la possibilità di estradare cittadini di Hong Kong anche in Cina), origine della protesta. Ora le organizzazioni dell’opposizione democratica chiedono molto di più: un’indagine sull’azione della polizia, prima di tutto, sulla collusione della malavita organizzata, le dimissioni della Lam, piena democrazia. E’ diventata una rivolta a tutto campo contro l’egemonia del Partito Comunista, che si sente anche nell’ex colonia britannica, nonostante la sua (formale) piena autonomia. Domenica si sono tenuti i primi raduni non autorizzati, per celebrare l’anniversario di Occupy Central (il primo movimento per la democrazia del 2014) e in almeno un caso, un poliziotto ha sparato in aria. In questa atmosfera già tesissima, ieri è successo ancora di peggio.

Nonostante il divieto, la contro-manifestazione del 70mo anniversario si è tenuta ugualmente. Come era prevedibile, una folla spontanea di manifestanti, organizzatisi usando Telegram, si è radunata per una marcia lungo la Causeway Bay, nel centro direzionale di Hong Kong. La marcia è partita pacifica, con bandiere cinesi listate a lutto o tinte di nero. “Non si può celebrare il compleanno di un grande assassino” si leggeva in uno degli slogan, riferito alla storia di crimini di massa della Repubblica Popolare. “In 70 anni di dominio del Partito Comunista, vi sono stati molti sacrifici, abusi dei diritti umani, oppressione dei diritti del popolo di Hong Kong e della Cina”, ha detto arringando la folla uno dei leader della protesta, Lee Cheuk-yan. Ha chiesto giustizia per le vittime del massacro di Tienanmen (di cui si può parlare liberamente solo in Hong Kong) e la fine del Partito unico.

L’intervento della polizia è stato subito accolto con la reazione violenta dell’ala più radicalizzata del corteo, ormai sempre più pronta a dar battaglia. I corrispondenti in piazza sono rimasti sorpresi dalla rapidità con cui, questa volta, si è passati dalla manifestazione pacifica allo scontro con la polizia. E’ qui che, nel tardo pomeriggio (tarda mattinata in Italia) uno dei manifestanti, un diciottenne, ha aggredito un poliziotto brandendo un bastone di ferro e l’agente ha risposto sparandogli a bruciapelo un colpo al petto (o alla spalla, secondo fonti della polizia). Mentre questo articolo viene scritto, le condizioni del ferito, ricoverato in ospedale, sono ancora ignote. Si tratta del primo colpo di pistola sparato dalla polizia contro un manifestante, da quando è iniziata la protesta in giugno. Altre 66 persone, sia manifestanti che poliziotti, sono rimaste ferite, non da armi da fuoco. Altri 180 partecipanti alla marcia sono stati arrestati.

L’agente “ha sparato un colpo all’aggressore per salvare la sua stessa vita e quella dei suoi colleghi”, dichiara al South China Morning Post la portavoce della polizia. Sul caso è stata aperta un’indagine. Non è il caso singolo in sé a fare la differenza. Incidenti di questo tipo sono avvenuti anche nelle città europee (basti pensare al G8 di Genova nel 2001). La polizia di Hong Kong segue ancora procedure quasi britanniche per contenere le manifestazioni, sebbene vi siano sospetti di violenze, abusi (anche sessuali) e persino tortura su cui i movimenti di protesta chiedono un’indagine indipendente. Il problema non è nei metodi, ma è a monte: gli abitanti di Hong Kong non possono più indire libere manifestazioni contro il Partito Comunista cinese e i suoi 70 anni di dominio. Questa è la notizia veramente grave per la città-Stato, finora autonoma e finora rispettosa della libertà di espressione e di assemblea. E ciò avviene dopo che il regime di Pechino ha, di fatto, soppresso l’autonomia politica di Hong Kong nel 2014 e con leggi come quella proposta sull’estradizione, sta rapidamente erodendo la “basic law” eredità britannica sotto la quale si dovrebbe gestire la transizione alla Cina. La storia che è sotto gli occhi di tutti è quella di un regime totalitario che avanza inesorabilmente e di una disperata resistenza spontanea che cerca di non soccombere.