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Prigioniere in casa, le suore di Beirut ostaggio degli sfollati

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Ottocento persone entrate con la forza dopo che affiliati di Amal ed Hezbollah hanno forzato i cancelli della loro scuola. "Ospiti" armati e l'incubo di una occupazione forzata subito per due mesi da tre anziane religiose. Il racconto di suor Joséphine e del vicario apostolico César Essayan.

Esteri 04_12_2024 Español

Beirut, Libano. Con il cessate il fuoco tra Hezbollah e Israele, la popolazione della capitale libanese è tornata a respirare aria di normalità. Negozi, caffè, ristoranti e centri commerciali hanno ripreso le regolari attività, mentre una fetta significativa degli sfollati ha ripreso la via dei rispettivi villaggi nel sud e nelle altre aree del Paese che hanno vissuto l’incubo del conflitto. D’altro canto, l’angoscia e il peso degli ultimi mesi di bombardamenti da parte israeliana restano ben presenti. Non solo la paura, le notti insonni, il terribile fragore degli attacchi, i morti e le distruzioni di interi quartieri. Anche la dimensione umanitaria del conflitto non è stata risparmiata da forti tensioni e forme di violenza, a volte da parte degli stessi beneficiari di carità ed accoglienza.

Con l’escalation degli ultimi mesi, il numero degli sfollati interni è schizzato a un milione e mezzo. Interi nuclei familiari sono rimasti senza un tetto e spesso privi del necessario per vivere. Lo Stato libanese, già in grave affanno finanziario, ha faticato a trovare alloggio per tutti e migliaia di persone si sono trovate a dormire all’addiaccio, nonostante la maggioranza delle scuole pubbliche sia stata destinata alla loro ospitalità. In questo quadro di assoluta emergenza, gli istituti religiosi hanno offerto il loro contributo, senza risparmiarsi e senza fare discriminazioni di tipo confessionale. Ciononostante, la disponibilità ad aiutare è stata talvolta ripagata con atti di prevaricazione, come nel caso di cui sono state vittime le suore di “Saint Joseph de l’Apparition" che gestiscono una scuola prestigiosa e molto conosciuta nel cuore di Beirut.

Sono le 9 del mattino del 30 ottobre e mi trovo a Beirut, nel centralissimo quartiere di Zuqaq al Blat, a un passo da Hamra Street e dagli edifici del Governo e del Parlamento. Ho appuntamento con le suore di Saint Joseph de l’Apparition, che a quanto so accolgono nel loro istituto  un certo numero di famiglie fuggite dalle zone bombardate: scoprirò presto che la situazione è molto diversa da quello che mi era stato raccontato. Mi accoglie Suor Joséphine, che parla a bassa voce mentre mi fa accomodare nel salottino della scuola: «Loro non vogliono giornalisti, è meglio che nasconda la macchina fotografica. Diremo che è un'amica della nostra congregazione venuta a trovarci da Roma». Il suo volto è sereno, ma non riesce a nascondere la preoccupazione: è dal 23 settembre che lei, suor Aline e suor Houda, le tre anziane sorelle della congregazione rimaste a Beirut, vivono prigioniere di circa ottocento sfollati in fuga, entrati con la forza nel loro istituto.

Quella sera di settembre, infatti, alcuni affiliati delle formazioni di Amal ed Hezbollah hanno violato con crick e piedi di porco i cancelli della scuola, facendo entrare gli sfollati nell'edificio. Da allora le aule, i cortili, le segreterie, le sale riunioni, il teatro, la palestra, i laboratori di informatica sono sotto occupazione e  dunque inagibili per i 1.200 studenti dell’istituto dai 3 ai 18 anni e per la quasi totalità di religione musulmana. Come è stato possibile un simile colpo di mano ai danni di tre religiose anziane (suor Joséphine, la più giovane, ha appena compiuto ottant'anni) responsabili di una scuola di eccellenza nel cuore della Capitale?
«Il 24 settembre sarebbe stato il primo del nuovo anno scolastico. Stavamo dando gli ultimi ritocchi alle aule quando ho ricevuto la chiamata del responsabile locale di Amal, il partito del Presidente della Camera Nabi Berri», racconta suor Joséphine in perfetto francese. «Mi ha chiesto di ospitare alcuni sfollati che stavano fuggendo dai primi bombardamenti israeliani, iniziati proprio quel giorno. Ho dato la nostra disponibilità, chiedendo però almeno un giorno di tempo per sgomberare le aule e preparare la scuola. Con gli insegnanti e i collaboratori ci siamo immediatamente attivati per trasformare gli spazi della scuola in dormitori per gli sfollati, ma non ce ne hanno lasciato il tempo: quella stessa sera verso le otto senza nessun preavviso hanno sfondato porte e cancelli e sono entrati con la forza».

Il volto di suor Joséphine si contorce in una smorfia involontaria di sofferenza mentre ricorda che nessun locale della scuola è stato risparmiato dall'occupazione: «Siamo riuscite a chiudere la Chiesa ed a mantenere il nostro appartamento, ma tutti gli altri ambienti sono stati occupati. Abbiamo chiesto di non entrare nelle segreterie, nelle aule professori, negli spazi della scuola materna, ma non ce l'hanno concesso. Abbiamo chiesto una lista degli occupanti, ma non ci è stata fornita. Abbiamo dovuto dare loro le chiavi dell'istituto, che abbiamo consegnato a patto che la scuola resti chiusa almeno nelle ore notturne».

Suor Joséphine mi accompagna nel cortile interno, che comincia ad animarsi. Uomini, donne e bambini si affacciano per ricevere la colazione e le copie di un quotidiano locale. «Tre volte al giorno vengono forniti gratuitamente l'acqua e i pasti; ci sono medici e infermieri che fanno visite periodiche e psicologi che aiutano gli sfollati a superare il trauma che hanno subito». Un ragazzo la interrompe mentre parla: è venuto a chiederle di installare il wifi. Suor Joséphine gli risponde che non ha idea di come provvedere, ma che facciano pure; lo stesso ragazzo tornerà più volte a insistere con lei durante il nostro giro in cortile.
Arrivano alcuni inservienti di colore a pulire i bagni, naturalmente insufficienti per un tale numero di persone e dunque bisognosi di essere disinfettati più volte al giorno. Chiedo a suor Joséphine chi paga tutti questi servizi. «Gli uomini di Amal si prendono cura di tutto, gli sfollati non sborsano un dollaro». Chiedo allora se Amal corrisponde un affitto o almeno un indennizzo alle suore, ma davanti a questa domanda il volto di suor Joséphine per la prima volta si rabbuia: «No, naturalmente non ci danno nulla. Ci hanno invece preso tutto. A parte le nostre stanze non siamo libere di disporre di nessun ambiente, oggetto o proprietà della scuola e non possiamo nemmeno esprimere il nostro pensiero davanti a loro: molti sfollati sono armati e una parola sbagliata può costituire un pericolo. Il direttore della scuola è stato minacciato più volte di morte». E i vostri studenti? «Fanno lezione online tre volte alla settimana. Negli altri giorni gli insegnanti ci aiutano a presidiare l'istituto». E la Santa Messa? Come fate se avete dovuto chiudere la Chiesa? «La ascoltiamo in televisione».

La situazione ha dell'incredibile e chiedo così udienza a Monsignor César Essayan, vescovo – più precisamente Vicario Apostolico – di Beirut e diretto superiore di Suor Joséphine e delle sue compagne. Monsignor Essayan, eletto otto anni fa, mi riceve l’11 novembre durante un suo breve viaggio a Roma dove lo raggiungo da Beirut. Gli chiedo innanzitutto i numeri della presenza cattolica latina (distinta dalla presenza cattolica di rito orientale) in Libano. «Da noi la Chiesa latina conta 40 congregazioni, 950 sacerdoti, religiosi e religiose, 200 conventi o istituti che in questi ultimi mesi hanno accolto 35.000 sfollati libanesi e stranieri, di cui duemila entrati con la forza».

Chiedo a Sua Eccellenza se è a conoscenza della situazione della scuola di Saint Joseph de l'Apparition a Beirut. «Certamente, sono stato chiamato subito dalle suore e dal 23 settembre ho visitato la scuola due volte. Il problema è che non ho trovato nessuno disposto ad affrontare gli uomini di Amal e di Hezbollah, e neppure gli sfollati, che sono armati: la paura è che la situazione vada fuori controllo. Sono andato personalmente dal Primo Ministro insieme al Ministro degli Affari Sociali ed ho proposto di trasferire gli sfollati a Bourj al Mour, una torre la cui costruzione non è stata finita ed è quindi vuota da 40 anni. Siamo in trattativa anche col Governatore di Beirut, che ha a sua volta promesso di trasferire gli sfollati nello Stadio Camille Chamoun. Aspettiamo risposte, ma la verità è che attualmente in Libano ci sono circa un milione e mezzo di sfollati che cercano rifugio: le strutture di accoglienza predisposte dallo Stato non bastano, c'è bisogno di creare nuovi alloggi e la Chiesa sta già facendo un grandissimo lavoro di accoglienza. D'altro canto, come Chiesa cattolica dobbiamo preservare i nostri istituti, che sono gravemente minacciati. Le faccio un esempio: vicino a Saint Joseph de l'Apparition c'è una grande moschea che dà il nome al quartiere, Zuqaq al Blat. Cionostante, nell'ultimo mese è entrato due volte nella scuola uno sheikh a guidare la preghiera per gli sfollati. Ora, l'intento è chiaro: sacralizzare il luogo cristiano in senso islamico. Poiché noi abbiamo pregato qui, ormai questo posto è nostro, questo è la loro logica. Le dicevo che sono entrati in duemila con la forza nei nostri istituti: oltre agli ottocento entrati a  Saint Joseph de l’Apparition, altri 1200 sfollati hanno occupato scassinandola la scuola delle Figlie della Carità in rue Clemenceau, al centro di Beirut. In quest'ultimo istituto si sono verificate addirittura sparatorie tra gruppi di sfollati appartenenti a partiti diversi, con grave rischio per l'incolumità delle suore».

A questo punto pongo a Monsignor Essayan la domanda che voglio porgli dall'inizio del nostro incontro: se il Vaticano è stato informato dei veri e propri soprusi che stanno subendo queste congregazioni religiose a causa dei tumulti provocati dalla guerra e se c'è stata una risposta diretta. «Monsignor Paolo Borgia, Nunzio Apostolico in Libano, ha sicuramente informato il Papa della situazione. Peraltro, dall'inizio della guerra la diplomazia vaticana non ha mai cessato di lavorare a tutti i livelli per risolvere il problema palestinese e il problema libanese, anche attraverso Monsignor Gabriele Caccia, Nunzio Apostolico presso le Nazioni Unite. Papa Francesco, come i suoi predecessori Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, si è preso a cuore la situazione del Libano, ma non gli si può chiedere l'impossibile. Il punto è che il Libano sta pagando il prezzo di un mancato accordo tra le forze regionali che vi hanno interessi. Al contempo, cause esterne come la guerra portano all'esasperazione del sentimento religioso all'interno di un Paese multiconfessionale: i capi politici strumentalizzano la religione per diffondere rancori e tensioni». Anche i capi politici cristiani? Chiedo. «Certamente: se le identità religiose vengono forzate divengono pregiudizi che si scontrano. Ricordiamoci che "non uccidere" vale sempre».

È il 27 novembre: alle quattro della mattina  è entrato in vigore il tanto sospirato cessate il fuoco tra Israele e Hezbollah. Gli sfollati hanno iniziato a lasciare Saint Joseph de l'Apparition sin dall'alba  per tornare alle loro case, o a quel che ne resta. Il direttore dell'istituto ha mandato immediatamente a chiamare gli operai per riparare i danni e riaprire il prima possibile la scuola agli studenti. Man mano che le famiglie di sfollati impacchettano le loro masserizie e lasciano la scuola, Suor Joséphine fa il giro dell'edificio: trova bagni devastati, banchi e sedie rotti, giochi non più utilizzabili. Ringrazia silenziosamente il Signore perché si è sbloccata una situazione altrimenti destinata a durare per mesi, forse anni. Le istituzioni libanesi, infatti, non hanno risposto alle sollecitazioni di Monsignor Essayan, e le promesse di spostare altrove gli occupanti non hanno avuto seguito. Con un sospiro Suor Joséphine termina il giro e raggiunge le sue consorelle per la recita della Supplica alla Vergine della Medaglia Miracolosa, di cui proprio il 27 novembre ricorre la festa liturgica. Chissà che la Madonna, apparsa a Catherine Labouré nella Chiesa parigina delle Figlie della carità il 27 novembre 1830, non sia intervenuta per impedire ulteriore morte e distruzione nel  Libano. Le anziane religiose non sprigionano risentimento o desiderio di vendetta, bensì pacatezza, perdono e amore cristiano. Sono pronte ad accogliere i loro allievi, dai più piccoli ai più grandi, con la dedizione e l'impegno di sempre.



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