Porporati senza porpora, al concistoro trionfa la sciatteria
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Mi si nota di più se mi vesto da cardinale o se mi vesto da non-cardinale? Radcliffe sceglie la seconda, ma almeno il saio lo indossi decorosamente. Dilaga il nuovo trionfalismo della trasandatezza, che non rende più spontanei ma solo più autoreferenziali.
Mi si nota di più se mi vesto da cardinale o se mi vesto da non-cardinale? Devono averla pensata così i due nuovi cardinali domenicani creati nel concistoro del 7 dicembre, Timothy Radcliffe e Jean-Paul Vesco. E si sono presentati a ricevere la berretta direttamente sul saio. A dire il vero, Radcliffe si è distinto più del confratello. Sia perché già in ottobre aveva reso pubblica la sua richiesta – accolta dal Santo Padre «con grande comprensione» – di rinunciare alle vesti cardinalizie. Sia, soprattutto, perché al concistoro si è presentato con un saio che gli arrivava quasi al polpaccio e i pantaloni che sbucavano con malagrazia. Se il trend continua così qualcuno si sentirà autorizzato ad andare al concistoro in jeans e scarpe da ginnastica. I grillini sbandieravano l’"honestà", certi ecclesiastici ostentano l’"humiltà". Che una volta ostentata non è più tale e semmai sfocia nella trasandatezza.
Il contrasto era stridente non solo con gli altri porporati ma anche con l’indiano George Jacob Koovadak e l’ucraino Mykhola Bychok, che in quanto cardinali orientali avevano sì vesti differenti, ma quelle previste dalla propria tradizione liturgica e con tutte le insegne del caso, altro che malinteso pauperismo. L’avvicendarsi, in ordine di creazione, tra Bychok e Radcliffe, non ha fatto che porre ancor più in risalto la mise da casa allagata di quest’ultimo. L’abito non farà il cardinale, ma almeno il saio lo si indossi decorosamente. Immagine sintomatica di quell’allergia post-conciliare alle insegne ecclesiastiche che ormai dilaga anche nei momenti più solenni della vita della Chiesa. E basata sul falso presupposto che determinati abiti e paramenti onorino la persona che li riceve, dimenticando invece che essi sono un eloquente promemoria della grave responsabilità che si va ad assumere. Responsabilità che particolarmente nel caso dei cardinali implica una disponibilità «usque ad sanguinis effusionem», «fino all’effusione del sangue». Un promemoria decisamente scomodo. Se questo è il significato del color porpora che riveste i cardinali, quelle vesti dovrebbero averle care piuttosto che vederle come un antiquato fastidio.
In principio fu Cantalamessa. Creato cardinale nel 2020, padre Raniero chiese di non vestire la porpora. E così andò a ricevere la berretta col saio cappuccino, ma indossando quantomeno una cotta per improvvisare una parvenza di abito corale. Involontariamente (ma con tutt’altra intenzione) riesumò un’usanza preconciliare, quando i cardinali provenienti da ordini religiosi avevano vesti cardinalizie quanto alla foggia, ma del colore dell’ordine da cui provenivano. Poi si preferì uniformare tutti i cardinali, ed ecco che dove prima vigeva una tradizione, capace anche di regolare le legittime differenze, ora si scatena l’improvvisazione a suon di surrogati dove ciascuno è protocollo a se stesso. Tra crocioni di legno e vestiario ad arbitrium, è poi tutta una gara – consapevolmente o meno – a chi più emula, anzi supera il “Papa della porta accanto”.
Se Cantalamessa fu il capostipite dei “porporati senza porpora”, chi fu il primo a rifiutare il proprio abito corale e nell’atto più elevato, ovvero l’elezione al soglio di Pietro? Esatto, a dare il via fu quella mancata mozzetta rossa (si veda la simbologia di cui sopra) che Papa Francesco non volle indossare la sera del 13 marzo 2013 e in nessun’altra occasione. Il resto venne di conseguenza: il pastorale attaccato con lo scotch a Sarajevo nel 2015, le visite dall’ottico (però l’ottico dei vip) e al negozio di dischi, la merendina alla guardia svizzera (neanche fosse un bimbo di dieci anni) e una conclamata allergia al protocollo – da lui stesso candidamente ammessa. E che ha fatto scuola anche tra coloro che saranno chiamati a eleggere il suo successore: chi si sceglie l’abito e chi il diminutivo. Per il vicario di Roma è stata diramata addirittura un’apposita circolare che chiede ai preti romani di menzionarlo come “Baldo” e non con il suo nome proprio, Baldassarre. Durante la Messa, nella preghiera eucaristica, mica al bar dell’oratorio.
Quello del 7 dicembre passerà alla storia come il concistoro dell’improvvisazione. L’ormai consolidata prassi di non comunicare anticipatamente la nomina ai futuri cardinali fa sì che qualcuno, dopo il pubblico annuncio, debba fare pubblica retromarcia per motivi non ben chiariti (come l’indonesiano Paskalis Bruno Syukur), e finendo inevitabilmente per alimentare proprio quel “chiacchiericcio” che Oltretevere è considerato una piaga. Più felice il colpo di scena del ripescaggio dell’arcivescovo di Napoli, dapprima non incluso tra gli eletti e poi probabilmente graziato da San Gennaro. Che almeno si badi al fuorionda: «Stai attento», ha raccomandato con premura il Papa a microfoni aperti al neocardinale Acerbi che, sì, ha 99 anni, ma sono “soltanto” undici più dei suoi. Un fuorionda degno delle vignette di Osho, che riporta alla mente il commento di Ratzinger quando si sentì definire il “nonno saggio”: «Mah, in fondo abbiamo soltanto nove anni di differenza. Forse era più corretto definirmi fratello maggiore…».
L’esperimento della Chiesa in uscita per ora sembra portare solo a una gerarchia sbracata. E, piaccia o meno, tanto più autoreferenziale quanto più ostenta spontaneità e pauperismo. Le insegne, i protocolli, tutte quelle “anticaglie” così care ai vituperati “indietristi”, servono proprio a far sparire la persona, a non mettere al centro chi se ne riveste (o non se ne riveste), bensì il ruolo, il ministero, la missione che è chiamato a compiere. Usque ad sanguinis effusionem.