Pio VII, il Papa mite perseguitato da Napoleone
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Domenica 20 agosto ricorrono i duecento anni dalla morte di Pio VII, il Papa, oggi Servo di Dio, deportato in Francia da Napoleone. E che, alla morte di Bonaparte, ne trattò la famiglia da vero cristiano.
Il 20 agosto di 200 anni fa, moriva il papa che si trovò nella tempesta dei giorni napoleonici: Pio VII, al secolo Barnaba Chiaramonti (1742-1823), dal 2007 Servo di Dio.
Monaco benedettino, priore dell’Abbazia di San Paolo a Roma (1775), vescovo di Tivoli (1782), cardinale e vescovo di Imola (1785), era nato 81 anni prima, a Cesena come il suo predecessore, papa Pio VI († 1799): «entrambi strappati con violenza alla loro sede episcopale e trascinati in esilio» (BENEDETTO XVI, Discorso, 4 ottobre 2008). Dopo la sua elezione alla cattedra di Pietro il 14 marzo 1800, a conclusione del laborioso «conclave dell’esilio» durato più di tre mesi nel monastero veneziano di San Giorgio Maggiore, «in momenti quanto mai difficili per la Chiesa seppe dare esempio ai principi e ai popoli di fede inconcussa, di magnifica generosità di animo, e soprattutto di grande fortezza nel difendere, davanti all’irresistibile invadenza napoleonica, i diritti inviolabili della Chiesa Cattolica», come scrisse l’allora segretario di Stato di Pio XI, il cardinale Pietro Gasparri († 1934), nella Lettera del 3 giugno 1923 al vescovo di Cesena (in Rivista Storica Benedettina, XIV, Santa Maria Nuova, Roma 1923, p. 206).
Ai cardinali riuniti il 29 ottobre 1804, Pio VII ricorda con soddisfazione il ristabilimento del cattolicesimo in Francia, grazie al Concordato del 1801, e comunica che, aderendo alla richiesta di Napoleone Bonaparte († 1821), si recherà a Parigi per incoronarlo imperatore. In realtà Napoleone assumerà da sé la corona. Purtroppo, i buoni rapporti con l’imperatore francese durano poco, e nel 1808 Napoleone incorpora all’Impero lo Stato Pontificio. Nel 1809 papa Chiaramonti, dopo aver scomunicato il Bonaparte, è deportato in Francia: Grenoble, Savona e Fontainebleau sono le sue residenze coatte. Rientrato a Roma nel 1814, dopo la caduta di Napoleone, ristabilisce la Compagnia di Gesù e imprime un decisivo impulso all’opera missionaria.
La mitezza di Pio VII e la superbia di Bonaparte sono conservate ne L’incoronazione di Napoleone I, la tela molto «ritoccata», ora esposta al Louvre, di Jacques-Louis David († 1825), il pittore della Rivoluzione francese e di Napoleone. Che giornata, quella del 2 dicembre 1804! Tutti nella chiesa-madre di Parigi, la cattedrale di Notre-Dame, invece che in quella solita di Reims. Quanti i disagi, anche fisici, sopportati angelicamente dal Papa! Per la gioia di re Enrico IV († 1106) e degli imperatori Federico Barbarossa († 1190), Federico II († 1250) e Ludovico il Bavaro († 1347), Napoleone si mette in capo la corona di imperatore dei Francesi da solo. Non era andato a Roma ai piedi di Sua Santità; ma con moine e minacce era riuscito a convincere il povero Pio VII a mettersi in viaggio, in pieno inverno, da Roma a Parigi, per consacrare quel Carlo Magno a rovescio.
Ci piace pensare che la «colonna sonora» di quella giornata, interpretata da 500 musicisti e cantanti, abbia consolato almeno in parte l’animo del Papa. Gran parte della musica fu composta da uno dei grandi maestri della scuola napoletana, il tarantino Giovanni Paisiello († 1816), per cui il Bonaparte andava pazzo. Alludiamo alla Messe du Sacre, per 3 voci soliste (ma i cantanti impegnati nelle varie parti furono 9), 2 cori e 2 orchestre, e al Te Deum in si bemolle maggiore per soli, doppio coro e doppia orchestra, che il compositore aveva scritto ma non diresse quella domenica di dicembre: a fine agosto era ripartito per Napoli, lasciando come suo successore Jean-François Lesueur († 1837), il maestro di composizione di Hector Berlioz († 1869).
Molto bella è la Messa, di cui riferirono: «Scelta e numerosa l’orchestra, cantanti di prim’ordine, le ispirazioni seguivano il maestro italiano. La Messa fu un capolavoro, che la più severa critica non avrebbe saputo menomamente attaccare (…). Paisiello nella indicata circostanza provò più che mai quanto fosse valente nelle sacre composizioni, con quanta filosofia sapesse esprimere le tante, sì variate e sì sublimi situazioni, che l’incruento sagrifizio presentano, e ben meritati applausi riportò da una folla immensa di popolo che ad uno spettacolo quasi più teatrale, che ecclesiastico, assisteva» (F. SCHIZZI, Della vita e degli studi di Giovanni Paisiello, Volume 73, Milano 1833, pp. 46-47).
Il Te Deum, eseguito alla fine, fu riciclato per l’occasione con disinvoltura. Fu composto da Paisiello a Napoli nel 1791 «per il ritorno delle Loro Maestà [Ferdinando e Carolina] da Germania, eseguitosi nella Chiesa di Belvedere sopra Caserta» (La rassegna musicale, Einaudi, 1930, p. 130). Parigi lo aveva sentito il 18 aprile 1802, giorno di Pasqua, quando fu proclamato in Francia il Concordato: i musici della cappella consolare e del Teatro della Repubblica e delle Arti si riunirono per cantarlo, insieme ad altre composizioni di Paisiello.
Questa partitura presenta particolare importanza, dal momento che Paisiello, pur essendo nato nel 1740, tra l’Opera comica e il patetico di quella «materia buffa […] bene intrecciata colla seria» (C. Goldoni, La Scuola Moderna, All’amico lettore), qui sa intuire lo stile Impero in musica. Sì, quella versione ornamentale di neoclassicismo con cui tutti gli artisti italiani e francesi si mettono in sintonia durante l’impero napoleonico; uno stile che sarà pienamente incarnato da Luigi Cherubini († 1842). Il Te Deum di Paisiello è tutto animato di spirito marziale: desta grande meraviglia il Te ergo quæsumus, in cui l’orchestra dialoga con la fanfara della Guarda Nazionale collocata nella navata. Ma vi si trovano pure tanti momenti delicati, quasi intimi (cfr. P. ISOTTA, Per un bicentenario: Paisiello e il mito di Fedra, Arte’m, Napoli 2016).