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Pietro predicava e Marco scriveva, di Luisella Scrosati

La datazione dell'arrivo di Pietro a Roma nel 42 (vi rimase per 25 anni) è molto importante per stabilire anche la data del vangelo di Marco, che in effetti riporta i temi della predicazione petrina. È proprio dall'incrocio tra la data dell'arrivo di Pietro e altri elementi che si trovano anche nella lettera di Paolo ai Romani che si evince che il Vangelo di Marco risale al 45 circa.

Catechismo 24_04_2022
I santi Pietro e Paolo

Nell’ultimo articolo (vedi qui), la sintesi della proposta di ridatazione dei Sinottici da parte di John Wenham ha dovuto, per ragioni di spazio, accennare solo brevemente al Vangelo di Marco, che nella datazione sia di Robinson che di Wenham viene collocato intorno al 45 d.C. circa. Entrambi gli autori sviluppano ampiamente le considerazioni presenti nel volume di grande erudizione, rimasto nell’ombra per molto tempo (ne avevamo accennato qui), The Church in Rome in the First Century, di George Edmundson.

Il Vangelo di Marco viene da tutte le fonti antiche collegato alla predicazione dell’apostolo Pietro a Roma. Gli autori moderni tendono però a fare riferimento alla presenza dell’Apostolo nella capitale dell’Impero solo a partire dagli anni antecedenti il suo martirio e dunque nella metà degli anni 60 del primo secolo. Il Vangelo di Marco – o della comunità marciana, come tende ad affermare una certa tendenza critica – scivolerebbe pertanto negli anni successivi la morte dell’Apostolo, preferibilmente dopo il fatidico anno 70.

Si è visto come la scoperta del famoso frammento 7Q5 (vedi qui) e gli studi di Jean Carmignac (vedi qui) orientino invece la datazione del secondo Vangelo anteriormente all’anno 50. Wenham ha ben presente la scoperta di Qumran e ne parla, anche se non diffusamente, nel suo Redating Matthew, Mark & Luke (pp. 177-9); ma ad avere maggior peso nella sua argomentazione è l’analisi delle antiche tradizioni, che peraltro confermano la conclusione di O’Callaghan e Thiede, e che permettono di collocare la stesura del secondo Vangelo verso il 45 d.C.

L’argomentazione di Wenham si concentra sulla verifica della tradizione ininterrotta della Chiesa di Roma, che ritiene che l’Apostolo Pietro sia stato vescovo dell’Urbe dal 42 fino al 67; dunque 25 anni, che non devono però essere pensati come l’arco di tempo di una presenza ininterrotta dell’Apostolo, dal momento che lo ritroviamo a Gerusalemme nel 46 (cf. Gal 2, 1-10), poi ad Antiochia; quindi, nel 49 sempre a Gerusalemme per il primo Concilio (cf. Atti 15, 1-21).

La fondazione della Chiesa di Roma da parte di Pietro e la sua permanenza come vescovo per 25 anni, di fatto non è mai stata contestata neppure dalle chiese orientali, incluse quelle nestoriana e giacobita, che pure avevano rotto la comunione con Roma. Ma quando sarebbe arrivato Pietro a Roma? La data tradizionale del 42 si armonizza in effetti con alcuni dati che ci derivano sia dalle lettere di San Paolo, che dagli scritti dei primi secoli.

Nella lettera ai Romani, datata tra il 56 e il 57, Paolo saluta i cristiani di Roma, affermando che «la fama della vostra fede si espande in tutto il mondo» (1, 8). Più avanti, l’Apostolo delle genti fornisce altri elementi di grande importanza: «Mi sono fatto un punto di onore di non annunziare il vangelo se non dove ancora non era giunto il nome di Cristo, per non costruire su un fondamento altrui [...]. Per questo appunto fui impedito più volte di venire da voi. Ora però, non trovando più campo d’azione in queste regioni e avendo già da parecchi anni un vivo desiderio di venire da voi, quando andrò in Spagna spero, passando, di vedervi» (Rm 15, 20. 22-24). Questi brevi passaggi dell’epistola mostrano con chiarezza: 1) che nell’anno 56/57, la Chiesa di Roma è conosciuta ovunque per la fama della fede; 2) che tale Chiesa esiste da tempo, dal momento che l’Apostolo aveva «da parecchi anni» il desiderio di vistarla; 3) che si tratta di una Chiesa che è stata edificata da qualcun altro, una persona autorevole, che è rimasta il responsabile davanti a Dio di quella Chiesa, al punto da far preferire a Paolo «più volte» di evitare di recarvisi, «per non costruire su un fondamento altrui». Wenham, più precisamente, condivide la posizione di Edmundson e di Robinson, i quali ritengono che «gli impedimenti di Paolo non derivino meramente dal ministero di Pietro a Roma nei primi tempi di Claudio, ma dalla sua attuale presenza lì durante un ulteriore periodo di lavoro nella città nel 55-56» (Redating, 156).

Dunque, nel 56/57 a Roma c’era una Chiesa molto conosciuta in tutto il mondo, fondata da diversi anni, con la quale Paolo aveva mantenuto dei contatti. Questi dettagli calzano perfettamente con la testimonianza di Dionigi, vescovo di Corinto, riportata da Eusebio di Cesarea, che parla delle «piante innestate a Roma e a Corinto da Pietro e Paolo» (HE, II, 25. 8); lo stesso Eusebio precisa il momento e la ragione per cui Pietro arrivò a Roma per la prima volta: «Sotto il regno di Claudio la Provvidenza universale, sommo bene e vicinissima agli uomini, condusse a Roma, contro un sì grande corruttore della vita [Simon Mago], Pietro, forte e grande fra gli apostoli» (HE, II, 14. 6).

La fonte storica appena citata ci fornisce due elementi cronologici importanti. Anzitutto, il riferimento a Claudio, proclamato imperatore sul finire del 41. È importante richiamare il fatto che almeno tre fonti, ossia Apollonio, riportato da Eusebio, gli apocrifi Atti di Pietro e infine Clemente Alessandrino, negli Stromata, ritengono che gli Apostoli rimasero a Gerusalemme, per ordine del Signore, per dodici anni dopo la sua morte. Questa tradizione sembra trovare conferma anche nel racconto dell’incarcerazione e della miracolosa liberazione di Pietro (Atti 12, 1-19); con l’arrivo di Erode Agrippa nel 41 e il martirio di Giacomo, fratello di Giovanni, a Gerusalemme era rimasto, degli Apostoli, il solo Giacomo, designato come vescovo della prima comunità cristiana; lo stesso Pietro, dopo questo fatto miracoloso, mandò a riferire a Giacomo l’accaduto, ma egli «s’incamminò verso un altro luogo».

Poi il riferimento a Simon Mago. Ancora una volta, è Eusebio di Cesarea (HE II, 13-14), che richiama l’autorità di Giustino martire. Autorità particolarmente attendibile, dal momento che Giustino era nativo della Samaria, come lo stesso Simon Mago. Nella sua Apologia, scritta mentre si trovava a Roma tra il 150 e il 160 per l’Imperatore Antonino Pio, Giustino afferma di fronte all’Imperatore che sotto il regno di Claudio, Simon Mago si era recato a Roma per esercitarvi arti magiche sotto l’influenza dei demoni e farsi salutare come un dio; fu questa presenza funesta a spingere il beato Pietro a mettersi in viaggio verso la capitale dell’Impero. Notizia confermata anche da Ireneo e da Ippolito.

Perché è così importante, in riferimento al vangelo di Marco, la datazione dell’arrivo di Pietro a Roma? Perché è proprio in questo lasso di tempo che va dall’arrivo dell’Apostolo a Roma, nel 42, e la sua prima partenza, probabilmente intorno al 45, che Marco esercitava il ministero di «interprete di Pietro» e fu dunque l’ovvio destinatario delle richieste di quanti volevano una testimonianza scritta della predicazione di Pietro (cf HE, II, 15. 1). Che Pietro non fosse più presente, mentre Marco mise mano all’opera, risulta implicitamente anche dal seguito narrato da Eusebio: «L’apostolo Pietro, come si dice, saputo il fatto per rivelazione dello Spirito, gioì del loro zelo e acconsentì alla lettura del testo nelle chiese» (HE, II, 15. 2). Marco non chiese dunque il permesso a Pietro, né attese il suo consenso, evidentemente perché quest’ultimo non era più fisicamente vicino a lui. Elementi che rendono più che attendibile la collocazione temporale del Vangelo intorno al 45 ca. E, come vedremo, non sono i soli.