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ORA DI DOTTRINA / 12 - IL SUPPLEMENTO

Quel papiro di Qumran che fa impazzire gli esegeti, di Luisella Scrosati

L'identificazione dei frammenti di papiro riitrovati nelle grotte di Qumran negli anni '50 del XX secolo ad opera di padre O'Callaghan, permettono di retrodatare la lettera di Paolo a Timoteo e il vangelo di Marco in età apostolica. Cosa che i soliti teologi avversano, ma che i papirologi confermano.

Catechismo 20_02_2022

Pezzi di papiro negli ingranaggi della macchina esegetica. Dal 1991 al 1994 Il Sabato aveva meritoriamente portato all’attenzione del pubblico il dibattito scientifico – e le reazioni ben poco scientifiche - su alcune scoperte straordinarie nell’ambito della papirologia. Si trattava dei frammenti di papiro della grotta 7 di Qumran, conosciuti come 7Q4 e 7Q5, e di altri tre papiri del Magdalene College. Sono passati quasi trent’anni: molte persone iniziano a dimenticare e altre più giovani non ne sanno nulla. Conviene perciò dare una rispolverata a queste straordinarie scoperte, che un certo mondo “scientifico” continua a voler ignorare.

La settima grotta di Qumran era stato scoperta nel 1955 (le altre otto anni prima) ed aveva una particolarità: tra gli scritti lì custoditi se ne erano trovati alcuni in lingua greca. Un punto chiarissimo di datazione, il terminus ante quem, è il 68 d. C., anno in cui gli esseni, in fuga dai Romani in marcia per distruggere Gerusalemme, sigillarono le grotte, prima di lasciare per sempre il loro “monastero”. Il materiale che si trovava lì dentro non poteva pertanto esservi pervenuto dopo questa data. Il papirologo Colin Herderson Roberts aveva a sua volta affermato, secondo criteri di papirologia, che i due frammenti non potevano essere posteriori all’anno 50.

Nessuna contestazione, nessuna opposizione, fino a quando altri papirologi si lanciano nell’avventura dell’indagine sull’identità di questi frammenti e arrivando a un “dunque” un po’ scomodo. Come il gesuita spagnolo José O’Callaghan, messosi alla caccia dell’identificazione di quel frammento, il 7Q5, di 3,9 X 2,7 cm, contenente 20 lettere greche disposte su cinque righe. Nessun passo dell’Antico Testamento quadrava con queste lettere; senonché a padre O’Callaghan le quattro lettere della quarta riga – nnes – fecero venire in mente la località di Gennesaret. Perché non cercare nel Nuovo Testamento, almeno per non lasciare intentata alcuna pista d’indagine? Dei tre passi neotestamentari che contengono questa parola, quello di Mc 6, 52-53 si incastrava perfettamente con le altre lettere del frammento di papiro: «perché non avevano capito il fatto dei pani, essendo il loro cuore indurito. Compiuta la traversata fino a terra, giunsero a Gennèsaret e approdarono».

O’Callaghan ottenne di pubblicare la sua scoperta nel 1972 sulla rivista Biblica, diretta dal cardinale Martini, in un articolo che, molto prudentemente, nel titolo intendeva porre un’ipotesi (¿Papiros neotestamentarios en la cueva 7 de Qumrân?), ma che, dal punto di vista contenutistico, era più che solido. E subito scoppiò la polemica. Perché questa identificazione comportava il riconoscimento dell’ “inammissibile”: e cioè che Marco avesse scritto il suo Vangelo prima del 50 d.C.

Ma più il mondo degli esegeti si opponeva e più fioccavano i consensi di papirologi e altri esperti. A dare man forte alla tesi di O’Callaghan fu soprattutto il papirologo tedesco (luterano, poi passato alla chiesa anglicana) Carsten Peter Thiede, che riprese e corroborò la tesi di O’Callaghan, rilanciandola in un simposio internazionale, che si tenne nel 1991 all’Università di Eichstätt. Poi arrivarono il sostegno scientifico di altri esperti raggiunti e intervistati da Il Sabato: mons. Enrico Galbiati, il cardinale Alfons Stickler e Ignace de la Potterie, Marta Sordi, Aristide Malnati e Orsolina Montevecchi tra i nomi più noti in Italia (quest’ultima, oltretutto, papirologa dell’Università Cattolica, di fama internazionale). Ma anche Hugo Staudinger, Herbert Hunger, Ferdinand Rohrhirsch, Harald Riesenfeld; tutti a dire che la tesi O’Callaghan-Thiede è assolutamente fondata e che le obiezioni provengono più da pregiudizi di natura teologica ed esegetica, che non dalla papirologia.

Come se non bastasse, in quella benedetta grotta numero 7, c’erano anche altri due frammenti di papiro: il primo alto 7,7 cm e largo 3,5, con un restringimento verso il basso, e l’altro di appena 1,1 X 1 cm, contenenti rispettivamente 16 e 5 lettere. La datazione è identica a quella del 7Q5: tra il 50 a. C. e il 50 d. C. L’identificazione di O’Callaghan-Thiede è ancora una volta esplosiva. Si tratta infatti del primo versetto del quarto capitolo della prima lettera a Timoteo: «(Daranno) retta a spiriti ingannatori e a dottrine diaboliche».

A parte il “contenuto” che sembra provocatorio nella sua riprovazione degli spiriti ingannatori (anche quello del 7Q5 non è da meno, dato il rimprovero per l’indurimento del cuore), il problema è che questo passo appartiene ad un testo del Nuovo Testamento e in particolare a quella lettera paolina. Perché le due lettere a Timoteo vengono annoverate tra le pseudoepigrafiche, cioè lettere non attribuibili direttamente all’Apostolo, ma ad alcuni discepoli che si sono appoggiati sulla di lui autorità. Buona parte della critica biblica la colloca tra la fine del I sec. e l’inizio del II; altri, più benevoli, la datano qualche anno prima del martirio di Paolo e la ritengono autentica.

Il fatto è che questa identificazione del frammento comporterebbe una retrodatazione di almeno 15-20 anni rispetto alla seconda ipotesi e di oltre mezzo secolo rispetto alla prima. Ironia della sorte ha voluto che, di tutte le lettere paoline, venissero ritrovati i frammenti della prima a Timoteo, che ha una caratteristica singolare: quella di riportare un insegnamento del Signore esplicitamente presente nel vangelo di Luca: «infatti la Scrittura dice: Non mettere la museruola al bue che trebbia; e: L'operaio è degno del suo salario» (1Tm 5, 18). La prima massima è tratta dal Deuteronomio, ma la seconda è nel Vangelo di Luca (10, 7). Una presenza del terzo Vangelo nelle lettere di Paolo, la seconda ai Corinzi, è stata confermata anche da José Miguel García (vedi qui).

Tirando le fila, l’identificazione operata da O’Callaghan e Thiede di questi due frammenti di papiro, comporterebbe una datazione del Vangelo di Marco anteriormente all’anno 50 d.C. Incrociando questa scoperta con quella di Jean Carmignac (vedi qui), l’originale ebraico di Marco andrebbe a collocarsi proprio in prossimità degli anni della prima predicazione di Pietro a Roma, ossia dopo il 42/43, secondo la testimonianza di Papia e Clemente Romano. Anche il Vangelo di Luca dovrebbe essere collocato prima dell’anno 50.

Per i papiri del Magdalene College – altra straordinaria scoperta - chiediamo al lettore di pazientare ancora un poco.