I vangeli furono scritti in ebraico
Gli studi approfonditi di padre Jean Carmignac, nella seconda metà del XX secolo, hanno permesso di capire che i vamgeli sinottici avevano il loro originale ebraico, confermando quanto già alcuni padri della Chiesa avevano a suo tempo testimoniato. Ma questa tesi è stata duramente avversata nella Chiesa dai soliti noti.
Quella della lingua originale dei Vangeli, e particolarmente dei sinottici, è una questione datata, eppure sempre terribilmente scomoda. Il povero padre Jean Carmignac l’ha sperimentato sulla sua pelle. Dopo essersi masticato e rimasticato la lingua dei cosiddetti “rotoli del Mar Morto”, ritrovati dal 1947 al 1956 nel villaggio di Qumran, sulla sponda nord-occidentale appunto del Mar Morto, Carmignac, che aveva una conoscenza accurata dell’ebraico e dell’aramaico dell’epoca di Gesù, ne era diventato uno dei massimi esperti, tanto che nel 1958 aveva deciso di fondare la rivista scientifica internazionale Revue de Qumran.
Carmignac un giorno si mise in testa di prendere il vangelo di Marco e di tradurlo in ebraico; non tutti si possono permette queste bizze, ma Carmignac sì. E, con sua sorpresa, si accorse che questa traduzione non era poi così complessa; al contrario, passaggi macchinosi e oscuri del testo greco finivano per trovarsi pienamente a loro agio della lingua ebraica del I sec. Nel testo greco infatti si trovano stranezze che non sono spiegabili con la semplice affermazione che il greco del Nuovo Testamento non sarebbe quello classico, ma quello della koinè (greco diffusosi a partire dal IV secolo a. C. con le conquiste di Alessandro Magno). Si tratta invece di un greco che segue la sintassi semitica. Questo sostrato semitico nel greco dei Vangeli è spiegabile, secondo Carmignac, con il fatto che si tratta in realtà di traduzioni letterali in greco di testi scritti in ebraico. E qui iniziò il suo calvario.
A questa tesi si è obiettato che basterebbe ipotizzare che i Vangeli, in particolare i sinottici, siano stati scritti da ebrei che non conoscevano bene il greco; oppure da autori che avevano cercato di imitare il greco della Settanta (Antico Testamento tradotto in greco). Ma il sostrato semitico è tale da non rendere ragione di queste due ipotesi. Un mediocre conoscitore del greco non avrebbe affiancato a frasi che in greco risultano problematiche altre in buon greco. Ma c’è un altro aspetto ancora più importante: la retrotraduzione in ebraico svela delle allitterazioni che dimostrano l’originale semitico e che invece non hanno senso nel greco.
Per esempio, in Lc 22, 15 troviamo che l’espressione «ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua», è resa in realtà con la ripetizione della parola “desiderio” e potrebbe essere resa letteralmente con “ho desiderato con desiderio”. Anche la Vulgata latina, mantiene questa allitterazione, che di per sé è estranea alla sintassi alla lingua latina: desiderio desideravi. Analogo è il caso di Mt 2, 10 dove la gioia dei Magi è data con un’espressione che letteralmente suonerebbe “gioirono di gioia”: assolutamente normale nell’ebraico, ma non nel greco (e nemmeno in italiano). Vi sono poi anche dei modi di dire ebraici, che sono stati riportati letteralmente in greco, senza che però in questa lingua abbiano significato. Il caso lampante è Lc 9, 51, che dovrebbe essere tradotto letteralmente così: “Gesù fissò il suo volto ad andare verso Gerusalemme”, dove “fissare il volto, la faccia” significa decidersi risolutamente per qualcosa.
Anche l’ipotesi che si tratti di un tentativo di imitazione del greco della Settanta non tiene. Come aveva spiegato ormai trent’anni fa a «Il Sabato» il prof. Paolo Sacchi, che è stato docente di Aramaico ed Ebraico e di Filologia Biblica all’Università di Torino, «che sia esistita una tale lingua, di forma greca ma di struttura ebraica, è un’idea che non ha – a suo favore – alcuna prova [...]. Il settantese è una spiegazione di comodo costruita a tavolino, senza riscontri, per spiegare tutto. Una finzione logica. [...] la prova lampante che il greco dei vangeli è una traduzione è che ha una struttura che ricalca l’ebraico».
Fatto sta che Carmignac più che confutato venne insultato e i suoi scritti rimangono “in ostaggio” all’Institut Catholique, che ne impedisce la consultazione e la pubblicazione. Si sa che la più intransigente di tutti è proprio “la Scienza”.
Eppure, oltre agli argomenti interni portati da Carmignac – e non solo da lui – esistono anche prove esterne piuttosto importanti. Origene, riportato da Eusebio di Cesarea, e Girolamo sono concordi nell’affermare l’esistenza di un Vangelo di Matteo ebraico. Il primo confessa di aver appreso la «tradizione relativa ai quattro Vangeli», la quale afferma che «per primo fu scritto quello secondo Matteo, il quale fu un tempo pubblicano, poi apostolo di Gesù Cristo. Egli lo pubblicò per i credenti che provenivano dal giudaismo, dopo averlo composto in lingua ebraica» (Historia Ecclesiastica, VI, 25. 4).
Girolamo aggiunge un dettaglio importantissimo: il testo ebraico di Matteo «si conserva tuttora nella biblioteca di Cesarea, che il martire Panfilo mise insieme con somma cura. Anche a me fu data la possibilità di trascriverlo da parte dei Nazarei, che fanno uso di quest’opera a Berea, città della Siria» (De Viris Inlustribus, 3.2). Insomma, un testimone oculare dell’ “originale” ebraico di Matteo. Ireneo di Lione conferma a sua volta la stesura in ebraico di quello che tradizionalmente è ritenuto il primo Vangelo; ed aggiunge una precisazione esplosiva: «Così Matteo tra gli ebrei pubblicò nella loro stessa lingua una forma scritta del Vangelo, mentre a Roma Pietro e Paolo predicavano il Vangelo e fondavano la Chiesa» (Adversus haereses III, 1.1). Matteo non solo è il primo ad aver scritto il Vangelo, ma viene anche precisato che la sua pubblicazione era già disponibile negli anni in cui Pietro e Paolo predicavano a Roma.
Quanto a Marco è ancora una volta Eusebio di Cesarea a riportare un’importante citazione di Papia di Gerapoli: «Marco, interprete di Pietro, riferì con precisione, ma disordinatamente, quanto ricordava dei detti e delle azioni compiute dal Signore. Non lo aveva infatti ascoltato di persona, e non era stato suo discepolo, ma [...] di Pietro; questi insegnava secondo le necessità, senza fare ordine nei detti del Signore. In nulla sbagliò perciò Marco nel riportarne alcuni come li ricordava. Di una sola cosa infatti si preoccupava, di non tralasciare alcunché di ciò che aveva ascoltato e di non riferire nulla di falso» (Historia Ecclesiatica, III, 39. 15). Marco viene qui definito “interprete” di Pietro; in greco ermeneutes, che indica il traduttore. Si tratta quindi di una traduzione dall’ebraico (scritto o orale?) della predicazione di Pietro al greco.
Padre Carmignac trova sponda più favorevole nelle testimonianze antiche che nei cattedratici moderni. Anche se, come avremo modo di vedere, la sua tesi sepolta nel mondo francese, sta rinascendo con vigore in quello britannico.