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Gerusalemme devastata, la profezia più scandalosa

La doppia profezia di Daniele e di Gesù riguardo alla distruzione di Gerusalemme e la dispersione del popolo ebraico ha puntuale riscontro nella storia. Ma gli esegeti, pur di non ammettere la profezia, post-datano i vangeli. Eppure ci sono le prove che le parole di Gesù sono state scritte prima della cronaca.

Catechismo 23_01_2022
Assedio di Gerusalemme e distruzione del Tempio

È la più scandalosa delle profezie, soprattutto per esegeti e biblisti; o meglio è una duplice profezia, pronunciata prima dal profeta Daniele e poi dal Signore Gesù Cristo stesso:

«Quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, allora sappiate che la sua devastazione è vicina. Allora quelli che sono in Giudea, fuggano sui monti; e quelli che sono in città, se ne allontanino; e quelli che sono nella campagna non entrino nella città. Perché quelli sono giorni di vendetta, affinché si adempia tutto quello che è stato scritto [...] Cadranno sotto il taglio della spada, e saranno condotti prigionieri fra tutti i popoli; e Gerusalemme sarà calpestata dai popoli, finché i tempi delle nazioni siano compiuti» (Lc 21, 20-24).

Il parallelo sinottico in Matteo, premette queste parole di Gesù: «Quando dunque vedrete l'abominazione della desolazione, della quale ha parlato il profeta Daniele, posta in luogo santo (chi legge faccia attenzione!)» (Mt 24, 15). Il riferimento esplicito è a Daniele 9, 27, alla conclusione della profezia delle settanta settimane, della quale Gesù afferma il prossimo adempimento. Nel precedente articolo (vedi qui), di questa profezia avevamo preso in considerazione “solo” 69 settimane... Che ne è della settantesima?

Subito dopo l’affermazione che «il consacrato sarà oppresso senza colpa in lui» (9, 26), segue una nuova profezia, piuttosto dettagliata: «il popolo di un principe che verrà distruggerà la città e il santuario; la sua fine sarà un'inondazione e, fino alla fine, guerra e desolazioni decretate. Egli stringerà una forte alleanza con molti per una settimana e, nello spazio di metà settimana, farà cessare il sacrificio e l'offerta; sull'ala del tempio porrà l'abominio della desolazione e ciò sarà sino alla fine, fino al termine segnato sul devastatore». Viene dunque annunciata una settimana di anni; ed in effetti la Prima Guerra Giudaica inizia con l’incarico che Nerone affidò a Vespasiano, sul finire dell’anno 66, di condurre la guerra in Giudea; e si conclude nel 73. Furono anni di alleanze militari e a metà della “settimana”, dopo tre anni e mezzo, ossia nel 70, il Tempio venne profanato e distrutto, cessarono per sempre il sacrificio e l’offerta, e il luogo santo venne lasciato deserto.

La profezia di Gesù richiama esplicitamente il testo di Daniele e precisa che i giudei sarebbero stati fatti prigionieri e dispersi tra le nazioni, mentre Gerusalemme sarebbe stata calpestata dai popoli. Tutto troppo preciso. I “razionalisti” dovevano necessariamente correre ai ripari, aggrappandosi ancora una volta al loro cavallo di battaglia, e cioè il vaticinium post eventum: la “profezia” non sarebbe altro che una rilettura degli eventi da parte della comunità cristiana, dopo che tali eventi si erano già verificati.

Nasce da questa necessità di togliere lo “scandalo” della profezia, di restare nei binari del “teologicamente corretto”, l’idea di spostare la datazione dei Vangeli dopo il grande evento del 70 d.C., che costituisce il terminus a quo. Una datazione che dev’essere accettata da chiunque voglia ricevere un incarico nel mondo accademico-ecclesiale, ma che in verità viene contestata da numerosi autori, sulla base di elementi sicuramente meno ideologici dell’esclusione aprioristica della profezia.

Se, per esempio, prendiamo l’opera lucana, constatiamo che gli Atti degli Apostoli, chiaramente scritti dallo stesso autore del Vangelo e dopo il medesimo Vangelo (cf. Atti 1, 1-2), dopo aver descritto con precisione e minuzie i viaggi di san Paolo, improvvisamente si interrompono con l’arrivo di Paolo a Roma, dove «rimase due anni interi in una casa da lui presa in affitto, e riceveva tutti quelli che venivano a trovarlo» (Atti 28, 30). L’epopea di Paolo si conclude con lui che se ne sta in casa; non una parola sul suo martirio, lasciato invece a fonti postume, come l’accenno presente nella lettere di san Clemente ai Corinti, (circa 90 d.C.), o gli apocrifi Atti di Paolo, del II secolo; o ancora le informazioni che ci giungono dalla Storia Ecclesiastica di Eusebio di Cesarea (III-IV sec.). Il fatto è piuttosto curioso ed il minimo che si possa dire è che gli Atti ignorino il martirio di Paolo, perché esso non è ancora avvenuto. Questo significa che lo scritto è anteriore all’anno 67, anno dell’ipotesi più tardiva del martirio dell’Apostolo delle genti (le altre due date proposte sono il 64 e tra il 56-58). A fortiori, dunque, il Vangelo del medesimo autore degli Atti degli Apostoli, risulta antecedente la data cruciale del 70 d. C.

José Miguel García, teologo e biblista della Scuola di Madrid, che ha conseguito la specializzazione in Esegesi del Nuovo Testamento proprio sul Vangelo di Luca, fa notare che, nella seconda lettera ai Corinti, composta nel 54/55, si trovano delle spie interessanti per datare il terzo Vangelo prima della distruzione del Tempio, dal momento che appare come già in circolazione nel momento in cui egli scrive.

Nel primo capitolo, Paolo si rivolge ai destinatari della lettera, confermandoli che «non vi scriviamo altro se non quello che potete leggere e comprendere» (2Cor 1, 13). Un’affermazione un po’ oscura. Ipotizzando però l’originale aramaico di queste lettere, l’accusativo diretto (“altro se non quello...”) del testo greco, può essere invece inteso come un accusativo indiretto, esprimibile con la preposizione “riguardo a”. In questo caso, la frase diventerebbe la seguente: «Non vi scriviamo se non riguardo alle cose che leggete». Ovviamente, non le cose che leggete in questa lettera – affermazione che sarebbe tautologica -, ma quelle cose che già leggete nelle vostre riunioni liturgiche. Il riferimento potrebbe essere ad un testo scritto letto liturgicamente, ma che non coincide con le lettere di san Paolo. Un Vangelo.

Il senso di questa prima “spia” si rafforza poco più avanti, allorché Paolo afferma di essere stato reso idoneo per «essere ministri di un nuovo patto» (3, 6) e si lamenta della cecità dei giudei, che «quando leggono l'antico patto, lo stesso velo rimane senza essere rimosso» (3, 14). Nel versetto successivo, Paolo afferma ancora che «fino a oggi, quando si legge Mosè, un velo rimane steso sul loro cuore». Sia l’espressione “leggere Mosè” che “leggere l’antico patto”, fanno riferimento a testi scritti, che venivano letti in sinagoga. Analogamente, l’espressione “nuovo patto” del versetto 6, indica dei testi, questa volta del Nuovo Testamento, che venivano letti liturgicamente. García ritiene che sia proprio questa lettera a inaugurare l’espressione Antico Testamento – Nuovo Testamento, per indicare i rispettivi libri ispirati.

Più esplicito è il riferimento al “fratello” che Paolo invia insieme a Tito: «con lui abbiamo inviato pure il fratello che ha lode in tutte le Chiese a motivo del vangelo; egli è stato designato dalle Chiese come nostro compagno in quest'opera di carità» (8, 18-19). Se, di nuovo, si retrotraduce in aramaico il testo greco del versetto 18, si avrebbe la seguente traduzione letterale: «Con Tito vi inviamo anche il fratello la cui opera degna di lode è la proclamazione del vangelo fatta da tutte le chiese». Il senso non è dunque quello dell’opera di evangelizzazione, ma proprio del libro che viene proclamato in tutte le chiese. Negli Atti, capitolo 21, il rientro a Gerusalemme, alla fine del terzo viaggio, viene narrato in prima persona plurale dall’autore, che risulta anche collaboratore di Paolo. Il fratello, designato per accompagnare Paolo a Gerusalemme per portare le elemosine raccolte, e autore del vangelo proclamato in tutte le chiese, può dunque a ragione coincidere con il narratore degli Atti. Conformemente a quanto San Girolamo, nel De viris illustribus (7, 1), scriveva di Luca: «seguace dell'apostolo Paolo e compagno di tutti i suoi viaggi, scrisse il Vangelo di cui parla lo stesso Paolo: Abbiamo mandato – dice – con lui il fratello la cui lode riguardo al vangelo risuona in tutte le chiese».

Si dice che tre indizi fanno una prova. Ma per certi esegeti, il pregiudizio è duro a morire.