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ORA DI DOTTRINA / 7 - IL SUPPLEMENTO

La profezia di Daniele sfida il razionalismo

L'esegesi moderna, figlia del razionalismo, ha messo in discussione la profezia delle Settanta settimane, che la Tradizione ha ha sempre considerato una profezia riferita a Gesù. Ma a un serio esame storico l'ipotesi razionalista non regge.

Catechismo 16_01_2022

«La profezia che segue [...] si riferisce a eventi della persecuzione di Antioco, ma in uno stile letterario allusivo e misterioso (assenza di nomi propri, cifre convenzionalmente arrotondate); così fa intendere che il testo ha una portata più ampia. Come l’annunzio del regno messianico [...], essa avrà la sua realizzazione definitiva nel tempo del Cristo e della chiesa». È questo il tenore della nota 9, 24 che la Bibbia di Gerusalemme dedica alla nota profezia delle Settanta settimane che si trova nel libro del profeta Daniele (9, 24-27); una profezia che fin dai primi secoli è stata presentata in chiave apologetica, soprattutto nei dibattiti con i giudei, per mostrare come il tempo del sacrificio di Cristo fosse stato preannunciato secoli prima.

Forse, a prima vista, non ci si accorge che si tratta di una nota piuttosto problematica, frutto di un compromesso tra due interpretazioni maggiori che sono entrate in conflitto soprattutto con l’avvento dell’esegesi critica di stampo razionalista: il nostro bersaglio da un po’ di articoli a questa parte; e non per una questione personale, ma perché liquida quell’interpretazione che la Chiesa per secoli ha dato a queste profezie, battezzandole non per nulla come profezie messianiche. Anche la nota successiva, la 9, 26, indica nel consacrato che «sarà oppresso senza colpa in lui» non il Cristo, ma «il sommo sacerdote Onia III (cf. 2Mac 4,30-38), deposto verso il 175 e assassinato dagli uomini di Antioco Epifane». Questa interpretazione viene preferita perché permetterebbe di sostenere che quella di Daniele non è in realtà una profezia, ma la messa per iscritto, in forma profetica, di un evento già accaduto – tecnicamente un vaticinium ex eventu o post eventum -, perché il libro di Daniele sarebbe stato redatto dopo il 170 a. C. e non nel VI secolo, come tradizionalmente ritenuto.

Al contrario, Eusebio di Cesarea, in un importante scritto apologetico, la Dimostrazione Evangelica, nel quale si proponeva di rispondere alle accuse dei giudei, che rimproverano al Cristianesimo di essere una religione “nuova”, si dedicava all’analisi di innumerevoli testi delle Scritture veterotestamentarie, per mostrare che Gesù Cristo era stato abbondantemente preannunciato proprio dai testi che ogni sabato gli ebrei leggevano ed ascoltavano nelle loro sinagoghe. Della profezia di Daniele, Eusebio affermava che «al compimento delle settanta settimane, tutte queste cose si realizzarono unicamente al tempo della manifestazione sulla terra del nostro Salvatore» (VIII, 2, 43).

È interessante il fatto che Eusebio riporti all’interno della sua opera un’ampia citazione della Cronografia di Sesto Giulio Africano, erudito del II-III secolo e amico di Origene, il quale indicava come punto di partenza del conteggio cronologico il «ventesimo anno del regno di Artaserse, re dei persiani» (VIII, 2, 48), e cioè l’anno 445 a.C., essendo Artaserse I Longimano divenuto re dei Persiani nel 465 a. C. L’ipotesi non fa altro che tener conto di quanto letteralmente riportato in Daniele 9, 25: «da quando uscì la parola sul ritorno e la ricostruzione di Gerusalemme
fino a un principe consacrato» inizieranno le settimane da conteggiare. Ed aggiungeva: «Se cominciamo a calcolare da quel momento, le settanta settimane si compirono alla nascita del Cristo» (VIII, 2, 50). Più che compiersi alla nascita nella carne, come vedremo, si compiranno alla morte e risurrezione di Cristo.

Anche Tertulliano, nella sua Polemica contro gli Ebrei, utilizzava la profezia di Daniele «per mostrare quando e in qual momento Cristo avrebbe liberato le genti, e per mostrare che dopo la sua passione la città stessa avrebbe dovuto essere distrutta» (8, 3).

Vediamo ora più da vicino la profezia. A Daniele, in esilio a Babilonia, che supplicava il Signore e accusava se stesso ed il suo popolo di aver peccato contro l’Altissimo, l’arcangelo Gabriele mostra a Daniele cosa sta per accadere: «Settanta settimane sono fissate per il tuo popolo e per la tua santa città per mettere fine all'empietà, mettere i sigilli ai peccati, espiare l'iniquità, portare una giustizia eterna, suggellare visione e profezia e ungere il Santo dei santi» (Dn 9, 24). Nel proseguo della profezia, le settanta settimane di anni vengono suddivise in tre unità: una di sette settimane (49 anni), una di sessantadue settimane (434 anni) ed infine una settimana (7 anni).

Se si prende come punto di partenza il 445 a.C., anno in cui Artaserse diede l’autorizzazione a Neemia di tornare a Gerusalemme «per costruire le porte della fortezza annessa al tempio del Signore, per le mura della città, e per la casa che abiterò» (Ne 2, 8), ci si accorge che la prima settima di anni, che riguarda il lungo tempo della ricostruzione di Gerusalemme fino al «principe consacrato» (Dn 9, 25), cioè Esdra, sommata alle sessantadue settimane, (dunque, in totale, 483 anni) ci conduce al 32 d. C. Bisogna infatti ricordare che il computo dei giorni del calendario lunisolare ebraico differisce da quello solare occidentale di circa 10 giorni all’anno; si tratterebbe pertanto di circa 173.880 giorni. Siamo nel tempo della Passione del Signore, che viene collocata sicuramente in un intervallo che va dal 29 al 34; quel tempo in cui, secondo la profezia, «un consacrato sarà soppresso senza colpa in lui» (Dn 9, 26); o, secondo il testo più preciso della Nuova Diodati, «il Messia sarà messo a morte e nessuno sarà per lui» (per la Vulgata Christum ducem) e si metterà «fine all'empietà», si sigilleranno i peccati e l’iniquità verrà espiata (cf. Dn 9,24).

Se si desse per buona l’ipotesi razionalista, e cioè che il passo di Daniele si riferirebbe all’epoca di Antioco, allora il punto di partenza dovrebbe essere retrodatato di circa 200 anni, finendo così nel nulla. Le due ipotesi che vengono avanzate – caduta di Ninive (612 a. C.) o inizio del regno di Nabucodonosor (604 a. C.) – oltre ad essere del tutto incongruenti con il testo della profezia che pone il punto di partenza dal momento in cui «uscì la parola sul ritorno e la ricostruzione di Gerusalemme» (Dn 9, 25), porterebbero intorno al 120 a.C., dove non incontriamo alcun “consacrato” che viene ucciso; nemmeno il citato Onia che venne assassinato da Andronico nel 171 a.C.
Collocare l’adempimento della profezia nel tempo di Antioco è altresì incongruente per il fatto che, dopo l’uccisione di Onia III, non si è verificata né la distruzione della città, né quella del tempio, come invece predetto dalla profezia: «il popolo di un principe che verrà distruggerà la città e il santuario» (Dn 9,26); fatti che si sono invece adempiuti dopo la morte di Gesù e che sarebbero, secondo diversi autori, il contenuto dell’ultima settimana della profezia.

Ben a ragione, dunque, il testo della Kalenda di Natale, che oggi viene purtroppo raramente cantato prima della Messa di Mezzanotte, mentre, seguendo i libri liturgici precedenti la riforma, veniva cantato all’Ora Prima della Vigilia, ignora le elucubrazioni razionaliste e continua a riportare senza esitazioni: hebdomada sexagesima quinta iuxta Danielis prophetiam [...] toto orbe in pace composito, Iesus Christus, aeternus Deus aeternique Patris Filius, [...] in Bethlehem Iudae nascitur ex Maria Virgine factus homo (nella sessantacinquesima settimana, secondo la profezia di Daniele [...] quando in tutto il mondo regnava la pace, Gesù Cristo, Dio eterno e Figlio dell’eterno Padre, [...] nasce in Betlemme di Giuda dalla Vergine Maria, fatto uomo».