Petrarca nega di invidiare Dante: sarà vero?
Nelle sue opere Petrarca non adduce mai richiami espliciti a Dante, se non in rari casi e afferma addirittura di non possedere la Commedia ma di non odiare il poeta del volgare e di non esserne invidioso. Ma la realtà storica fa emergere che non tutto quanto sostenesse l’autore fosse la realtà.
Nelle sue opere Petrarca non adduce mai richiami espliciti a Dante, se non in rari casi (nel Rerum memorandarum libri, nel Rerum vulgarium fragmenta CCLXXXVII, nel Triumphus Cupidinis). Sostiene addirittura di non possedere la Commedia. Ma è proprio vero che la sua conoscenza del capolavoro dantesco sia superficiale e proveniente solo da fonti indirette? Non ci sono tracce nelle opere petrarchesche di una lettura profonda della Commedia? Nel percorso che faremo in queste settimane cercheremo di rispondere anche a queste domande.
Nel 1350 Giovanni Boccaccio conosce Petrarca avviando così un’amicizia che si protrarrà nel tempo. Grande estimatore di Dante, Boccaccio sente il fascino della cultura e dell’opera di Petrarca, ma cerca, al contempo, di promuovere nell’amico la rivalutazione del grande poeta fiorentino. Gli invia addirittura una copia della Commedia, dal momento che l’autore del Canzoniere non la possiede (almeno così sostiene), accompagnandola con un’epistola metrica latina in cui lo invita ad accogliere il «gratum Dantis opus doctis, vulgo mirabile» («la gradita opera del dotto Dante, mirabile per il volgo»). Boccaccio insiste anche sul fatto che Dante ha scritto la Commedia in volgare non per ignoranza, ma per mostrare le grandi potenzialità della nuova lingua. A comprova fa conoscere anche le egloghe in latino che Dante invia a Giovanni del Virgilio. Non c’è traccia di un’eventuale risposta di ringraziamento per il dono inviata dal Petrarca a Boccaccio. Negli anni successivi Boccaccio incontra nuovamente Petrarca, lo provoca ancora sulla figura e sull’opera di Dante con una lettera che non ci è pervenuta.
Abbiamo, però, la risposta del Petrarca: una lettera appartenente alla raccolta delle Familiares (XXI, 15) scritta nel 1359 in cui l’autore del Canzoniere cerca di allontanare le accuse d’invidia nei confronti di Dante. Petrarca apprezza il Trattatello in laude di Dante scritto dal Boccaccio, ma trova che la lettera di scuse redatta da Boccaccio dimostri chiaramente che l’amico non lo conosca ancora bene. Petrarca non è, infatti, in alcun modo infastidito dal fatto che si tessano elogi nei confronti di Dante; al contrario, il mancato riconoscimento della gloria dovuta ai meritevoli è per Petrarca sempre fonte di grande fastidio e riprovazione:
Pertanto, avendomi tu proposto l’argomento, che io non avrei intavolato spontaneamente, è opportuno insistere perché io mi ripulisca presso di te, e attraverso di te presso gli altri, di una voce che circola sul mio conto non solo in modo falso, come dice Quintiliano a proposito di se stesso e di Seneca, ma anche in modo strisciante e maligno. La diceria odiosa sostiene che io odio e disprezzo quella persona con lo scopo di rivolgere contro di me l’odio del pubblico volgare che lo apprezza: un genere di bassezza mai visto e una tecnica calunniatoria senza precedenti.
Petrarca allontana da sé le accuse di odio e di disprezzo nei confronti di una persona che ha visto solo una volta, per giunta quando era ancora bambino: Dante si trovò a vivere con il nonno e il padre di Petrarca, il primo più anziano di lui, il secondo più giovane; tutti compagni di esilio in seguito all’epurazione avvenuta nella città di Firenze dopo la cacciata dei guelfi bianchi nel 1302. A quell’epoca Francesco Petrarca aveva solo sette anni, da quanto scrive nella lettera, mentre Dante quarantasei.
Nelle circostanze della guerra e di altre avversità si creano spesso amicizie forti, soprattutto tra persone che presentano «un’affinità di interessi e di capacità». Petrarca sottolinea, però, il differente atteggiamento di Dante rispetto al padre: quest’ultimo, infatti, si mosse per amore della famiglia e impegnato «in altre faccende» tanto da adeguarsi all’esilio, mentre il primo vi si oppose in tutti i modi con accanimento, tutto concentrato su «un progetto avviato, trascurando tutto il resto, avido esclusivamente di fama». Petrarca sostiene di amare ed ammirare quell’uomo che
non si è lasciato distogliere dalla strada intrapresa una volta per tutte né dalle offese dei concittadini né dall’esilio né dall’indigenza né dall’attacco nemico né dall’amore coniugale né dalla compassione per i figli.
Tante altre persone, ricche d’ingegno e intelligenti, sensibili ed elevate, sono state allontanate da una leggera brezza dal loro proposito. Petrarca attesta, quindi, di non odiare Dante, ma anzi di amarlo per la patria comune, per l’amicizia col padre, per la scrittura e per l’intelligenza. Petrarca riconosce che l’accusa che gli è stata mossa di non possedere la Commedia sia veritiera: lui, che possiede tantissimi libri, anche quelli introvabili, che ha girato l’Europa alla ricerca dei codices manoscritti nelle biblioteche occidentali dando così avvio alla filologia moderna, afferma di non aver mai posseduto l’opera in volgare più importante e famosa.
A suo dire, le ragioni sono adducibili non a riluttanza per Dante e alla sua opera, ma al fatto che anche lui Petrarca da giovane si esercitava nella lingua volgare e temeva «di diventare un pedissequo e inconsapevole imitatore, considerato che a quell’età si è plasmabili come cera e inclini all’ammirazione incondizionata». Aveva sviluppato «un grado tale di autostima se non di presunzione» da ritenere «di avere ingegno sufficiente a raggiungere» una sua «peculiare maniera in quel genere senza l’aiuto di chicchessia». Se nelle sue opere comparissero espressioni simili a quelle dantesche, ciò non è dovuto «per un’indebita appropriazione o per volontà imitativa» (vizi che ha sempre fuggito «come scogli in mare, soprattutto nelle composizioni in volgare»), «ma per un’inconsapevole passaggio sulle medesime tracce dovuto o a un puro caso o a un’affinità intellettuale».
Nella lettera, giunto ormai ad un’età di cinquantacinque anni, Petrarca concede «senza difficoltà il primato dell’eloquenza in volgare» a Dante, ma, al contempo, sostiene la netta superiorità della scrittura latina, come ribadisce nella Seniles XV 2. In un certo senso è come se Petrarca affermasse la sua superiorità nei confronti nel rivale. Petrarca allontana l’accusa di voler «sradicare la sua rinomanza», «di provare odio, […] disprezzo» verso Dante, il cui nome tace in tutta la lettera «consapevolmente». Petrarca è categorico, lui non può invidiare l’autore della Commedia:
Come si può ritenere vero che io invidi una persona che ha impegnato tutta la sua vita in cose alle quali mi sono appena applicato quando ero un adolescente debuttante? o che io invidi quella sua arte, che se non fu l’unica alla quale si dedicò fu certo suprema, e che per me è stata solo un passatempo e un esercizio di base per allenare il mio ingegno? Dimmi tu: che spazio ci trovi anche solo per sospettare la mia invidia?
Ma è proprio vero che Petrarca si dedica al volgare soltanto nell’adolescenza? Oppure la sua preoccupazione per il Canzoniere lo assillerà per tutta la vita fino alla morte? Petrarca dichiara di non aver mai letto il capolavoro dantesco, mostra quindi una totale sufficienza nei confronti di Dante. È, però, indubbio, com’è dimostrato dagli studi condotti (che rintraccia una fitta rete di reminiscenze e allusioni sia nel Canzoniere che nei Trionfi) e come verificheremo nel percorso, che Petrarca conosca bene l’opera dantesca.