Per l'Europa un futuro da Afghanistan
La censura buonista fa sì che venga altamente sottovalutato in Europa il fenomeno del ritorno dei foreign fighters, i cittadini europei che sono andati a combattere per l'Isis in Siria e Iraq. Eppure le centrali del fondamentalismo islamico sono ben salde in Occidente e i combattenti tornano per continuare il lavoro.
L'operazione ''jihad di rientro'' è in corso da mesi, nonostante tutti i Paesi europei tendano a sottostimare la reale portata del fenomeno. I foreign fighters che dai teatri di jihad in Siria e Iraq, dopo il crollo di Isis stanno tornando in patria sono decine di migliaia sparsi dalle coste atlantiche della Spagna fino alle pendici degli Urali, in Russia. Il loro obiettivo è tornare nelle rispettive terre di partenza, dove sono stati radicalizzati e dove hanno preso la decisione di partire per il Medioriente, per andare a prendere parte a quello che avrebbe dovuto essere l'incipit della nuova espansione del Califfato globale, che però non è avvenuta.
Almeno non in termini bellici, perché l'infiltrazione di frange estremiste e jihadiste legate ai Fratelli Musulmani sono saldamente radicate in Occidente. Sono le stesse, per intenderci, che hanno mandato i foreign fighters al jihad siro-iracheno per poi attenderli al ritorno, visto che in quei luoghi la missione non è stata totalmente compiuta. È una partita doppia quella che l'estremismo organizzato travestito da fondazioni, associazioni caritatevoli e centri culturali gioca fra Oriente e Occidente; già, perché coloro che sono partiti anni fa e che non sono caduti, oggi tornano e troveranno chi li aspetta per continuare quella missione.
Solo le coordinate geografiche cambiano, non gli intenti. E il timore più grande, che spesso ho espresso laddove mi è stato possibile (visto che questi discorsi alla censura buonista non piacciono) è che non appena il fenomeno sarà visibile e palesemente individuabile in termini numerici ci troveremo di fronte qualcuno a cui questi personaggi faranno stringere il cuore: ''vanno curati'', ''sono andati laggiù perché qui non avevano uno scopo di vita'', ''si sono radicalizzati perché erano in stato di disagio''. Oppure, prospettiva ancora più agghiacciante, ''l'hanno fatto perché l'Occidente li discrimina''.
Al peggio non c'è mai fine, si sa, e dunque occorre essere preparati alle parole. Come a quelle del 30enne francese Yassine che, dopo aver militato in Siria con Isis, dice a France 2 di voler tornare a casa, perché sostiene di non aver fatto nulla anche se le immagini lo smentiscono. È un foreign fighter e come tutti coloro che sono stati radicalizzati da elementi della fratellanza musulmana utilizza la taqiyya, ovvero l'arte del dissimulare, del nascondere i propri veri obiettivi e intendimenti, quello che viene chiamato il ''doppio linguaggio''.
In molti diranno che sono tornati a casa perché lì erano stati costretti ad andare, che non hanno ucciso nessuno, che non hanno stuprato nessuno, che loro erano andati lì solamente a vedere qualche parente. Altrettanti gli crederanno, si può star certi, perché in fin dei conti chi può sapere cosa una persona ha fatto in un altro luogo se non ci sono testimonianze o prove? Ma chi viene da quelle terre, esclusi i bambini che hanno assistito a scene o in alcuni casi eseguito ordini che li segneranno per la vita, sapeva dove andava e cosa andava a fare.
La domanda allora è: anche quando i numeri ci diranno che alle porte d'Europa bussano decine di migliaia di foreign fighters con le mani sporche di sangue, vincerà ancora una volta il buonismo figlio legittimo del pensiero unico dominante? Mentre i vari ''califfi'' sparsi nel mondo già inneggiano, con foto e proclama, al jihad globale, l'Occidente acconsentirà supinamente nel divenire un nuovo Afghanistan o una nuova ex Jugoslavia piena di miliziani di rientro?