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ISLAM

Pakistan, nuove vittime della caccia ai "blasfemi"

Pakistan. Un musulmano impiccato dalla folla perché accusato di blasfemia, un buddista linciato dalla folla per lo stesso motivo. E un gruppo di estremisti ha profanato un cimitero ahmadi, setta "eretica". Sono gli ultimi di una serie di casi in cui la popolazione si fa giustizia da sé, dopo che qualcuno, senza prove, viene accusato di blasfemia.

Libertà religiosa 18_02_2022
I funerali di Mushtaq Ahmed

Il 12 febbraio in Pakistan, nel Punjab, un uomo è stato legato, torturato, lapidato e impiccato da una folla furiosa, convinta che avesse commesso un’azione blasfema. Si chiamava Muhammad Mushtaq, aveva 41 anni ed era musulmano. Poche ore prima si era recato in moschea. Un custode ha raccontato ad alcune persone di averlo sorpreso, cosa molto probabilmente inventata, mentre bruciava delle pagine del Corano. La notizia si è diffusa rapidamente, sono accorse centinaia di persone e per il poveretto non c’è stato scampo. Neanche gli agenti di polizia sopraggiunti sono riusciti a salvarlo, presi a sassate a loro volta.

Quello di cui Mushtaq è stato vittima, è uno dei tanti casi di giustizia popolare istigati dagli integralisti. Il più recente risale al dicembre del 2021, giorno in cui Priyantha Diyawadana, un cittadino originario dello Sri Lanka, buddista, è stato accusato di blasfemia per aver rimosso dai muri della fabbrica di cui era direttore dei manifesti del partito islamista Tehreek-e-Labbaik Pakistan sui quali compariva il nome del profeta Maometto. L’uomo è stato picchiato a morte e il suo cadavere dato alle fiamme. Nel 2014 una giovane coppia di sposi cristiani è stata vittima di uno degli episodi più cruenti. Dagli altoparlanti di una moschea era stata diffusa la falsa notizia che avevano profanato il Corano bruciandone alcune pagine. Alla presenza di 500-600 persone in preda all’ira, sono stati torturati per due giorni e infine bruciati vivi in una fornace.

Sempre per il reato di blasfemia, un tribunale di Ghotki, nel Sindh, ha condannato a 25 anni di carcere un insegnante indù, Notan Lal, preside di un istituto scolastico superiore indù. Nel 2019 il padre di un suo allievo lo aveva denunciato, accusandolo di aver insultato Maometto durante una lezione in lingua urdu. In seguito alla denuncia, nel distretto di Ghotki si era scatenata una ondata di violenza contro gli indù. Negozi, templi e scuole erano stati devastati e saccheggiati.

La sentenza contro Notan Lal è stata pronunciata l’8 febbraio. Due giorni prima, un gruppo di estremisti, di cui facevano parte anche degli agenti di polizia e dei religiosi, ha profanato il cimitero ahmadi di Premkot, nel Punjab. La Ahmadiyya è un movimento islamico fondato in India nel 1889, oggi presente in oltre 200 Paesi. In Pakistan è stata dichiarata eretica, non musulmana, nel 1974. A suscitare la collera delle persone che hanno partecipato all’azione sono stati i versetti del Corano scritti sulle tombe, ritenuti blasfemi dal momento che gli ahmadi non sono riconosciuti come musulmani. Per cancellarli, gli estremisti hanno distrutto 50 tombe e minacciano di demolire anche le abitazioni ahmadi che ancora presentano versetti del Corano sui muri. Episodi del genere, commenta la Commissione per i diritti umani del Pakistan, “sono diventati quasi una routine lasciando gli ahmadi assediati nella morte come nella vita”.  

Il Pakistan è un esempio drammatico, estremo ma tutt’altro che isolato, dell’influenza che l’integralismo islamico è in grado di esercitare sugli abitanti e sulle istituzioni di un paese. Il primo ministro Imran Khan e non poche autorità politiche si dissociano, ordinano azioni rigorose, manifestano in diverse occasioni stima e apprezzamento nei confronti delle minoranze religiose che la costituzione stessa tutela. Ma i partiti e i movimenti integralisti sono potenti. Per questo abolire, ad esempio, la legge sulla blasfemia, o anche solo emendarla mitigando le sanzioni che arrivano alla pena di morte, provocherebbe reazioni incontrollabili che paralizzerebbero il paese. Il governatore del Punjab Salman Taseer nel gennaio del 2011 e nel marzo dello stesso anno il ministro delle minoranze Shahbaz Bhatti, cattolico, sono stati assassinati per aver criticato la legge.

L’intellettuale somala Ayaan Hirsi Ali, uno dei più autorevoli studiosi dell’islam, chiama gli integralisti i “musulmani di Medina”. Sono infatti quelli che, ispirandosi al periodo in cui il profeta Maometto, trasferitosi dalla Mecca a Medina, incominciò a combattere e discriminare chi rifiutava di convertirsi, ritengono che dovere di ogni musulmano sia proseguire la sua santa guerra, il jihad. Per loro un buon musulmano non si può limitare a rispettare la shari’a, la legge islamica. Deve anche costringere gli altri fedeli a osservarla rigorosamente, punirli, se trasgrediscono o se si convertono a un’altra religione, e sottomettere all’islam tutta l’umanità, fino all’ultimo infedele. Hirsi Ali spiega nel mondo più chiaro perché e contro chi i fondamentalisti islamici combattono: “vagheggiano – dice – un regime basato sulla shari’a e sono a favore di un islam largamente o totalmente immutato rispetto a ciò che era nel Settimo secolo. Soprattutto, considerano un requisito della fede il dovere di imporla a tutti: sia gli infedeli, atei, devoti di altre religioni, sia i fedeli imperfetti, quelli che si adattano alla modernità e che trascurano i loro doveri. È un jihad, una guerra santa che si deve combattere su due fronti: quello interno, il dar el-Islam, la casa dell’Islam, e quello esterno, il dar el-harb, la casa della guerra”.

Si stima che soltanto il 4% dei musulmani siano integralisti e tuttavia decine di paesi in Asia e in Africa ne patiscono costantemente la violenza e, come in Pakistan, milioni di persone li temono, ma altrettante li sostengono, subendone l’influenza.