Oscar, lo scontro fra minoranze prevale sull'arte
Oscar 2019. Vince Green Book, contro il razzismo. Ma a Spike Lee non basta: è ancora troppo razzista. Vince Malek e dedica la vittoria a immigrati e gay. Vince Cuaron: che è messicano. E il presentatore, afro-americano, si è dovuto ritirare per le polemiche (sui gay). Uno scontro tribale fra minoranze, tutto politico, travolge anche l'arte.
Gli Oscar sono una grande festa del cinema, sempre più rovinata da un ospite sgradevole: la politica militante.
Ha vinto decisamente Green Book come miglior film. Anche su queste colonne è stato recensito e apprezzato, è un film che piace a tutti. Ma è stato subito accolto come un guanto di sfida alla politica di destra. Anche in Italia, l’ex premier Enrico Letta non si è trattenuto dallo scrivere su Twitter: “Vorrei dedicare la vittoria di Green Book e Rami Malek a Matteo Salvini. La scena in cui l'italiano immigrato Tony Vallelonga si fa dare dell''italiano-mezzo negro' dal poliziotto razzista dell'Alabama - twitta l'ex premier Enrico Letta - andrebbe proiettata nelle nostre scuole”.
La vittoria di Green Book, al contrario, non è piaciuta al più importante dei candidati afro-americani: Spike Lee. Mentre il premio veniva assegnato al miglior film, il regista nero agitava le braccia, si alzava dalla sedia, occorreva la mediazione di qualche paziente membro dello staff per farlo tornare al suo posto. “Sono particolarmente sfigato. Ogni volta che qualcuno guida un’automobile, io perdo”, ha commentato successivamente. La prima volta che “qualcuno guida un’automobile” gli ha soffiato l’Oscar è stato A spasso con Daisy nel 1989, in quel caso l’autista era il nero Morgan Freeman e la passeggera una raffinata signora ebrea americana (Jessica Tandy). Questa volta i ruoli si sono invertiti perché l’autista è l’italo americano Tony Vallelonga (interpretato dal danese Viggo Mortensen) e il raffinato passeggero è il nero Don Shirley (Mahershalaa Ali). “Credevo di essere al Madison Square Garden con gli arbitri a fare una “chiamata” sbagliata. Sembrava uno scherzo”, ha commentato ancora Spike Lee. Tanta animosità non è motivata solo dall’invidia, o dall’ira contro l’infausto destino (altrimenti detto “sfiga”), ma anche perché Green Book, dagli intellettuali più attivisti, è considerato … razzista. Esattamente come in tutti i film in cui si esalta il ruolo del “salvatore bianco”.
I neri di Spike Lee, in BlackKklansman si ribellano da soli. E, passando da un eccesso all'altro, nella sua sceneggiatura, premiata come migliore non originale, gli estremisti delle Pantere Nere sono totalmente assolti, in un film pennellato in tinte bianche e nere, da manicheo, con scene che talvolta ricordano Eisenstein, il maggior propagandista sovietico. E non basta mai. Spike Lee, ritirando il suo premio per la sceneggiatura di BlackKklansman ha lanciato un vero e proprio spot elettorale: “Le elezioni presidenziali del 2020 sono dietro l’angolo. Mobilitiamoci tutti. Cerchiamo di stare dalla parte giusta della storia. Facciamo la scelta morale per l’amore e contro l’odio”. Il film di Spike Lee, che è ambientato negli anni ’70, si chiude con la tesi che il terrorismo del Ku Klux Klan razzista non sia mai stato sconfitto, per volere dei vertici della polizia. E nella scena di chiusura, mette a confronto le dichiarazioni del leader del KKK David Duke a favore di Trump e il discorso inaugurale di Trump. La tesi esplicita del film di Spike Lee è che Trump sia il candidato alla Casa Bianca scelto dai terroristi razzisti col cappuccio bianco. E’ chiaro che, ai suoi occhi, un film come Green Book appaia come un’operina per le educande (bianche) del Sud.
Nella trappola del politicamente corretto è cascato l'inconsapevole co-protagonista Viggo Mortensen. In una conferenza stampa a Los Angeles, spiegando quanti progressi si fossero fatti dagli anni ’60 ritratti nel film, aveva detto “la parola negro non viene più utilizzata con leggerezza”. E per questo ha dovuto chiedere pubblicamente scusa. La parola “negro” infatti, non si può nemmeno pronunciare. E’ diventata una parola tabù. I giornalisti più accorti, ormai, scrivono N** e dicono “la parola con la N” (i nostri lettori, speriamo comprendano che l’abbiamo semplicemente riportata tra virgolette, per dovere di cronaca e senza intenti razzisti).
In questo clima, fortemente politicizzato, quasi da terrore, Alfonso Cuaron ha portato a casa la statuina come miglior regista e il suo film Roma si è aggiudicato il premio come miglior pellicola in lingua straniera. Girato in bianco e nero e parlato in spagnolo e lingua nativa mixtal, è uno spaccato di dramma familiare (ma anche un po’ di lotta di classe) nel Messico degli anni ’70. Visto il livello di politicizzazione degli Oscar e di ostilità al presidente in carica, non manca il sospetto che abbia vinto prima di tutto perché è messicano e dice cose di sinistra, prima ancora che per gli indubbi (così dicono) meriti artistici.
Ha vinto anche Rami Malek, per la sua spettacolare interpretazione di Freddy Mercury in Bohemian Rhapsody. Ma più che la musica dei Queen sono stati celebrati e citati altri aspetti della sua vittoria. A sviare l’attenzione dai tanti vecchi e nuovi fan e nostalgici, è stato lo stesso Rami Malek, che nel suo discorso di ringraziamento ha detto testualmente: “Abbiamo fatto un film su un omosessuale, immigrato, che ha vissuto impudentemente, e il fatto che questa sera stiamo festeggiando lui e la sua vita è la prova che abbiamo bisogno di storie come questa”. Malek ha poi ricordato che, come il cantante dei Queen, è anche lui figlio di immigrati. “Mio padre era egiziano. Sono un americano di prima generazione e parte della mia storia la sto scrivendo ora”. Rami Malek è il primo arabo-americano a essersi aggiudicato un Oscar come miglior attore protagonista ed è questo, più che la sua bravura, che sta facendo notizia.
Probabilmente l’Academy del cinema di Los Angeles doveva farsi perdonare tutte le polemiche sull’assenza di neri, di immigrati e di latinos che inevitabilmente seguivano le edizioni precedenti. Per questo ha ossessivamente rispettato le quote delle minoranze. Ma ci sono minoranze che non vanno d’accordo con altre minoranze, come dimostra la vicenda di Kevin Hart, afro-americano, che avrebbe dovuto essere il presentatore. Si è dovuto ritirare, distrutto dalle polemiche, perché i media hanno ripescato un suo tweet, di nove anni fa, in cui si augurava che suo figlio non diventasse… gay. La reazione è stata di condanna corale e, benché nero, Hart è passato dalla parte dell’oppressore. Ha dovuto rinunciare a un incarico che è diventato un vero parafulmine per le polemiche di tutti i tipi, capaci di distruggere qualsiasi carriera, quello che lo Hollywood Reporter definisce ormai come “il lavoro meno ambito a Hollywood”. Non a caso, dopo aver suggerito come presentatori alternativi artisti pescati da altre minoranze, prima di tutto donne e gay, alla fine a presentare gli Oscar è stato: nessuno. Non c’è stato alcun presentatore unico, ma un’alternanza di Vip. Perché a furia di cercare la formula perfetta per la tolleranza è solo l’odio fra tribù che prevale. Anche sull’arte.