Il nero, il bianco e una lezione che possiamo imparare
Un celebre e raffinato pianista afroamericano e un rozzo buttafuori di origini italiane negli States degli anni Sessanta: il film Green Book di Peter Farrelly, che racconta una storia vera, ora nelle sale cinematografiche e candidato a cinque Premi Oscar, piace a tutti.
Abbiamo visto lo splendido e premiatissimo film americano Green Book di Peter Farrelly, cinque nomination per gli Oscar 2019 (i premi saranno assegnati il 24 febbraio) e tre Golden Globe già vinti, oltre a numerosi altri riconoscimenti. Protagonisti sono i due bravissimi attori Viggo Mortensen (quasi irriconoscibile, con oltre dieci chili in più, per ben interpretare l’italoamericano Tony Vallelonga, insaziabile ghiottone) e Mahershalaa Ali, che impersona perfettamente l’elegante e colto ma fragile musicista afroamericano Donald Walbridge Shirley. Ambientata negli States dei primi anni Sessanta, la pellicola ci presenta una storia che, se non può essere di integrazione reale in un’epoca in cui nell’America del Sud c’era ancora la segregazione, ci illumina però sulla possibilità di costruire rapporti nuovi persino in un ambiente razzista. Come? Mostrando con delicatezza e garbata ironia la nascita di un’amicizia così autentica proprio perché inaspettata, capace di sfondare anche i pregiudizi più radicati, senza che vengano negate le differenze, che nel film più marcate non potrebbero essere in tutta la loro dirompente comicità.
L’America sa per lunga esperienza che cosa sia davvero il razzismo e in particolare quello per noi difficilmente comprensibile del secondo dopoguerra, epoca così aperta al cambiamento e al progresso, ma terribilmente chiusa nei suoi pregiudizi discriminanti. Un altro recente film, Il diritto di contare di Theodore Melfi, nelle sale nel 2017, ci aveva già fatto conoscere efficacemente la mentalità ristretta e l’ottuso disprezzo - in quegli stessi anni Sessanta - persino della progreditissima NASA nei confronti di tre eccezionali donne matematiche nere, definite “calcolatrici di colore”, vessate in ogni maniera in nome di un’insensata segregazione, malgrado i loro innegabili meriti e successi. L’America sa ricostruire senza falsi pudori le sue debolezze e la stoltezza del suo razzismo anche nel nuovo film Green Book, il cui titolo si riferisce alla guida turistica per viaggiatori di colore (ideata nel 1936 dallo scrittore ed editore nero Victor Hugo Green), che segnalava negli anni della segregazione razziale luoghi e percorsi adatti a loro, proprio perché discriminati: indicazioni quindi destinate anche al raffinato musicista nero Don Shirley. L’artista decide di compiere un lungo viaggio nel profondo Sud per un tour di concerti al pianoforte, che sa suonare divinamente; ma è pur sempre un “negro” per i bianchi razzisti di quegli Stati. Perciò, per scongiurare ogni possibile problema e difficoltà, il benestante e aristocratico genio del pianoforte assume come autista per la sua lunga tournée il rozzo, ignorante ma perspicace e disinvolto buttafuori italoamericano Frank Anthony Vallelonga (di origini calabresi, momentaneamente senza lavoro), non per niente soprannominato Tony “Lip” (in inglese, labbro) perché non smette mai di parlare e riesce a far fare agli altri quello che vuole, districandosi abilmente anche tra gli arroganti mafiosi italoamericani del suo ambiente.
La convivenza dei due compagni di viaggio li porterà a una vera conoscenza reciproca, che dovrà superare i radicati pregiudizi di entrambi per aprirsi, dopo innumerevoli gag e momenti di profonda e drammatica sincerità, segno di autentica maturazione interiore, a un’amicizia davvero accogliente, proprio nella notte di Natale. Tony accetta un lavoro ben pagato senza immaginare chi sia veramente il dottor Shirley che, in tutta la sua algida superiorità, seduto sul sedile posteriore dell’auto guidata dall’italoamericano, mostra la sua inutile eccentricità ai bianchi, che non lo ammettono nei loro ristoranti, ma anche ai neri che lavorano nei campi di cotone del Sud. E lo guardano passare imbambolati, in una scena memorabile che tutto dice di questo fallimentare tentativo di affrancamento dal colore della pelle del bravo pianista. Ma del resto l’impossibilità di negare le proprie origini attraverso la costruzione di un’identità aristocratica, che lo separa dal suo popolo, esploderà in tutta la sua dolorosa evidenza quando finalmente il dottor Shirley confesserà apertamente al suo rude autista, sbrigativo ma dal cuore aperto: «Se non sono abbastanza nero, né abbastanza bianco, né abbastanza uomo, allora che cosa sono?».
Ecco allora la chiave semplice - ma oggi purtroppo sottovalutata, per non dire censurata - offerta da un film intelligente e divertente, per aprirci a un rapporto vero con chi è diverso: non negare la nostra identità, non smarrirla, e nello stesso tempo essere sempre pronti a imparare dall’altro. E imparano davvero tutti e due i “viaggiatori” del film; l’inversione dei ruoli tradizionali, con il bianco povero e il nero ricco, rende divertente ma nient’affatto banale il loro cammino di cambiamento, che si apre a un’amicizia semplice ma colma di gratitudine reciproca. Tony scopre la bellezza della musica raffinata e della cultura di un nero che prima di partire non avrebbe considerato degno di bere dai suoi bicchieri di casa (all’inizio infatti butta nella spazzatura, con disprezzo noncurante, i bicchieri in cui hanno bevuto due uomini di colore venuti in casa sua per lavori di riparazione). Ma il buttafuori italo-americano non rinuncia a far assaggiare al musicista la bontà del popolare pollo fritto e soprattutto a fargli provare la gioia di suonare in un allegro locale dei suoi “fratelli” neri, spingendolo ad abbandonare il pubblico bianco - falso, patinato e razzista - cui Donald si è votato per suonare la sua musica sofisticata. D’altra parte Tony Lip impara a tacere quando i richiami del pianista sono troppo profondi e quando Don Shirley gli insegna le giuste, delicate parole per esprimere nelle sue lettere l’amore che prova per la moglie Dolores, rimasta a casa con i bambini. Tony, uomo dal cuore onesto e sincero, non si fa confondere dalla superiorità culturale e artistica del pianista nero e nel finale commovente ma non dolciastro gli offre quello che ha di più caro e che lo fa essere quello che è: la sua pittoresca famiglia nel giorno del pranzo di Natale. E il solitario e infelice pianista accetta e apprezza.
È una storia vera. Tony “Lip” Vallelonga e Don Shirley sono entrambi morti nel 2013, ultraottantenni, a poche settimane l’uno dall’altro. Ma è una storia “vera” anche per noi. Hanno imparato loro, in un’epoca di razzismo imperante, possiamo imparare anche noi.