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nuove speculazioni

Orlandi, macché svolta: la pista londinese è un bluff

La Bussola ha analizzato la lettera pubblicata dal Domani che l'arcivescovo di Canterbury avrebbe scritto al cardinal Poletti sulla fantomatica permanenza a Londra di Emanuela Orlandi. Ebbene: l'inglese stentato, alcuni dettagli, il protocollo e soprattutto l'agenda del prelato anglicano concorrono a far pensare che siamo di fronte all'ennesima speculazione spacciata per svolta.

Ecclesia 18_05_2023

È notizia di quarantotto ore fa l'acquisizione da parte dei pm di Roma di atti sulla scomparsa di Emanuela Orlandi messi a disposizione dall'ufficio del promotore di giustizia vaticano che sul caso ha aperto un'indagine ad hoc. 

Della vicenda si era parlato nella scorsa settimana per l'ennesima patacca pubblicata da Emiliano Fittipaldi sul quotidiano "Domani" che aveva parlato di "svolta o depistaggio". Si tratta di una lettera che, in un inglese stentato, l'allora arcivescovo anglicano di Canterbury George Carey avrebbe scritto il 6 febbraio 1993 al cardinale Ugo Poletti, all'epoca già ex vicario di Roma. Leggendola, però, si scartano entrambe le opzioni: da un lato non c'è alcuna traccia di svolta, dall'altra definirla un "depistaggio" significherebbe sopravvalutare il lavoro di chi ha redatto quest'ennesimo falso probabilmente pensato per provare a dare credibilità alla tragicomica nota spese sulle "attività relative alla cittadina Emanuela Orlandi" pubblicata sempre da Fittipaldi nel 2017.

Nella missiva di fresca pubblicazione, l'allora capo della comunione anglicana scrive al cardinal Poletti di aver saputo di un suo imminente arrivo a Londra per alcuni giorni e gli chiede di venirlo a trovare "nei prossimi giorni per discutere personalmente in merito alla situazione di Emanuela Orlandi di cui sono sono a conoscenza (...) dopo anni di carteggi scritti". A smentire l'autenticità della lettera ci ha pensato il figlio di Carey che a "Domani" ha fatto notare come fosse "scritta su carta che non reca un'intestazione corretta, contiene errori di sintassi e di grammatica e sarebbe stata ritenuta non conforme ai criteri qualitativi per la corrispondenza di Lambeth Palace".

Non solo la forma, ma anche il contenuto è decisamente inverosimile. Intanto vale la pena chiedersi perché il primate della comunione anglicana avrebbe dovuto rapportarsi - lui in prima persona! - con l'ex vicario di Roma e non, piuttosto, con l'allora presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani, il cardinale Edward Idris Cassidy, competente per le relazioni con la chiesa d'Inghilterra. Perché, se l'argomento dell'incontro richiesto doveva essere "la situazione di Emanuele Orlandi" di cui il religioso sarebbe stato a conoscenza e che appare come un riferimento alla presunta permanenza londinese della ragazza al numero 176 di Chapman Road tirata in ballo nella già citata nota spese, Carey ne intende parlare con Poletti che aveva avuto al massimo la sola potestà vicaria del governo pastorale nella diocesi di Roma? Non avrebbe avuto più senso parlarne con l'allora arcivescovo di Westminster nonché presidente della Conferenza episcopale cattolica dell'Inghilterra e del Galles, il cardinale Basil Hume o meglio ancora con monsignor Luigi Barbarito, nunzio apostolico in Gran Bretagna?

Peraltro, in questo caso l'arcivescovo anglicano non avrebbe dovuto aspettare di venire a sapere di un viaggio di un alto prelato a Londra per un confronto su quello scomodo dossier perché avrebbe potuto convocare in qualsiasi momento i due presuli cattolici che risiedevano nel Regno Unito. Per quale motivo il primate anglicano, venendo a scoprire presumibilmente che la ragazza residente in Vaticano si trovava ospite di una struttura cattolica nella capitale britannica, avrebbe sentito il bisogno di intrattenere un lungo carteggio e poi di sollecitare un faccia a faccia proprio con l'ex cardinale vicario di Roma?

Eppure, come ben sappiamo, Emanuela Orlandi era residente in Città del Vaticano, parrocchiana a Sant'Anna. Quindi perché l'ex vicario e non il presidente della Pontificia commissione per lo Stato della Città del Vaticano, il cardinale venezuelano Rosalio José Castillo Lara? La risposta è scontata: perché l'autore di questa patacca avrà pensato che sarebbe stato più intrigante tirare in ballo Poletti, il cui nome è ormai quasi automaticamente associato dall'opinione pubblica alla tomba di Enrico 'Renatino' De Pedis nei sotterranei della basilica di Sant'Apollinare.

Quella sepoltura entrò prepotentemente nel mistero Orlandi nell'estate del 2005 a causa di una telefonata anonima alla segreteria della trasmissione "Chi l'ha visto?" in cui la soluzione del caso viene collocata "nella cripta della basilica di Sant’Apollinare" e ricondotta al "favore che Renatino fece al cardinal Poletti". La tomba, poi, è stata aperta nel 2012 e al suo interno c'era solamente il cadavere di De Pedis, rivelando una volta per tutte l'inattendibilità di quella telefonata. Eppure ancora oggi resiste in buona parte dell'opinione pubblica la forte convinzione che ci sia un collegamento tra quella sepoltura e la scomparsa di Emanuela.

Un collegamento che andrebbe individuato proprio nel fantomatico "favore" fatto al cardinale. Chi fece quella chiamata, in realtà, non era depositario di chissà quale segreto dal momento che la presenza della tomba dell'uomo considerato esponente della malavita romana nei sotterranei della basilica era già di dominio pubblico da otto anni. Oltre ad articoli di giornale, c'era stata anche un'interrogazione al ministro dell'Interno dell'allora deputato leghista Mario Borghezio che chiedeva chi avesse autorizzato quella traslazione. Ci aveva pensato l'allora responsabile dell'ufficio stampa del vicariato, Angelo Zama, a raccontare già nell'estate del 1997 come erano andate le cose, chiarendo che "era stato il cardinale vicario Ugo Poletti, il 10 marzo 1990 a concedere il nullaosta per la sepoltura di De Pedis richiesto da monsignor Piero Vergari, all'epoca rettore della basilica".

Dunque, l'anonimo chiamante a "Chi l'ha visto" nel 2005 avrebbe potuto tranquillamente aver appreso otto anni prima dalla stampa quella circostanza e presentarla come rivelazione nel 2005, mettendola in mezzo al caso che più di tutti ha attirato (e continua ad attirare) l'attenzione di mitomani e sciacalli. 

Ma a rendere inverosimile la lettera pubblicata la scorsa settimana da Fittipaldi c'è anche dell'altro. La data riportata è il 6 febbraio 1993. L'autore non si è informato a sufficienza sul momento storico che la Chiesa d'Inghilterra e la leadership di Carey vivono all'epoca. Al Sinodo dell'11 novembre 1992, per soli cinque voti, la Chiesa d'Inghilterra dava l'ok all'estensione del ministero ordinato alle donne. "Credo che Dio chiami la sua Chiesa a ordinare donne al sacerdozio" disse l'allora arcivescovo di Canterbury nel bel mezzo della discussione ed aprendo così le porte all'esodo dei dissidenti verso Roma.

Nei primi mesi del 1993, il Vaticano, pronto ad accogliere gli anglicani in fuga, comunicò il via libera e impose la condizione di non limitarsi alla sola opposizione alle donne prete, ma procedere con l'accettazione della dottrina cattolica. Si prevedeva in quel frangente un travaso di migliaia di ministri dall'anglicanesimo al cattolicesimo. Nella Chiesa d'Inghilterra c'era aria di resa se il portavoce Eric Shegog si limitava a "sperare che le persone che pensano di trasferirsi a Roma aspettino e vedano". Contro i prossimi fuoriusciti che trattavano con il Vaticano, Carey usò parole forti in un'intervista a Meridian Television accusandoli di "arrecare un danno molto grave alla fede cristiana".

Insomma, il clima tra Chiesa di Roma e Chiesa d'Inghilterra era tutt'altro che idilliaco, ben lontano dall'immaginare una convocazione dall'arcivescovo di Canterbury per il cardinale vicario di Roma per parlare di Emanuela Orlandi. Ma non c'era solo questo.

Tra la fine del 1992 e l'inizio del 1993, il primate anglicano presunto autore della lettera a Poletti era sotto attacco. In quei mesi non c'erano solo i dissidenti interni per il voto sull'ordinazione femminile, ma persino il Financial Times a prendersela con il primate anglicano per alcuni investimenti immobiliari fatti dalla Chiesa d'Inghilterra. In questo clima, proprio nella seconda settimana di febbraio, Carey era atteso al Sinodo e qui ricevette nuove critiche. Lo si apprende da un articolo del The Sunday Times del 21 febbraio 1993 dal titolo piuttosto esemplificativo del momento ("Carey the catastrophe?") e nel quale Rebecca Fowler raccontava l'attesa delusa per un discorso che l'arcivescovo di Canterbury avrebbe dovuto tenere al Sinodo generale il martedì sera, ovvero il 16 febbraio.

"Carey aveva un aspetto terribile (...) chiaramente esausto per una settimana di viaggio all'estero, influenzato, riusciva a malapena a sentire le domande che gli venivano dai 150 membri del clero e dei laici", ha scritto la giornalista. Dunque, il primate anglicano, arrivato all'appuntamento decisivo del Sinodo in cui i ribelli contestavano la sua leadership, era reduce da una settimana fuori Londra. E in effetti da nostre ricerche siamo riusciti ad accertare che Carey aveva visitato le istituzioni europee a Strasburgo dall'11 al 12 febbraio. Se, come scrive Fowler, l'arcivescovo era stato all'estero nella settimana dal 7 al 13 febbraio, come faceva ad invitare Poletti ad andarlo a trovare "nei prossimi giorni", come si legge nella missiva di Fittipaldi?

L'agenda (oltre alla testa) di Carey era talmente affollata in quei giorni che proprio nei primi giorni del mese era tornato da una conferenza della comunione anglicana di dodici giorni da lui presieduta a Cape Town e nella cui sessione finale aveva parlato pure Nelson Mandela. Insomma, tutti questi elementi rendono altamente improbabile il contenuto della lettera pubblicata su "Domani" che sembrerebbe voler rivitalizzare la pista londinese - collegandola tramite la figura del cardinal Poletti alla leggenda nera sulla tomba di De Pedis - rivelatasi un bluff già in due occasioni come ha di recente ricordato il giornalista Pino Nicotri nel suo libro "Emanuela Orlandi. Il rapimento che non c'è". Sembrerebbe che questa lettera sia tra le carte consegnate da Pietro Orlandi nel suo incontro con il promotore di giustizia vaticano, Alessandro Diddi. Se quest'ultimo si mettesse davvero a scomodare un arcivescovo emerito di Canterbury per una patacca così eclatante come forse auspicherebbe "Domani" ("i promotori non hanno ancora sentito l'arcivescovo Carey", ha scritto Fittipaldi), non basterebbero i frammenti di croce regalati per l'incoronazione di re Carlo a risparmiare al Papa una figuraccia con la Chiesa d'Inghilterra.