«Noi, cristiani in India senza casa nè terra»
Fondamentalisti indù scatenati. E guai a chi soccorre i perseguitati. In Kandhamal, a due anni e mezzo dall’ondata di violenza, non c’è pace per cattolici e protestanti.
Boscaglia e cespugli ricoprono la struttura scoperchiata di quello che era stato un vasto edificio adibito ad uffici a Paburia. Nel villaggio di Beticola ruderi di decine di case più o meno ampie si stagliano contro il cielo. Anche lì una vegetazione spontanea si arrampica ora su mura diroccate, si infiltra fra cumuli di mattoni e detriti vari, e ricopre quasi per intero la strada che porta agli edifici devastati. Un qualsiasi visitatore occasionale giungerebbe alla naturale conclusione che il prospero villaggio sia stato sconvolto da un violento terremoto.
Sono immagini forti, che evidenziano in tutta la sua drammaticità la tragedia abbattutasi sull’attiva comunità cristiana locale in un Kandhamal senza pace. Le 54 famiglie cattoliche che abitavano a Beticola oggi lottano sul desolato pendio di una montagna, a Nandagiri, 18 chilometri più in là, per ricostruire da zero la loro vita. «Vivevano bene al villaggio. Date un’occhiata alla nostra situazione attuale» dice Chrisando Mallick, muratore, oggi a Nandagiri, dopo che nel maggio 2009 il campo profughi, dove le famiglie della distrutta Beticola avevano trovato un primo rifugio, è stato chiuso.
Il destino di questi 54 nuclei è probabilmente il peggiore fra quelli di altre migliaia di cristiani cacciati dai villaggi a causa della loro fede: non hanno soltanto perso le loro case, saccheggiate e distrutte così come la chiesa costruita nel 1956, ma hanno anche dovuto subire l’infamia di un ostracismo a vita dalla loro terra. E questo spiega perché la devastata Beticola sia rimasta dimenticata, mentre la maggior parte degli insediamenti cristiani del Kandhamal stiano gradatamente, seppur a fatica, tornando alla normalità, due anni e mezzo dopo le violenze subite. «Gli indù fondamentalisti ci hanno impedito di tornare a casa, ed il governo non ha fatto nulla in senso contrario: ci ha soltanto permesso di insediarci qui, mettendoci a disposizione del terreno», continua Chrisanto.
Piegandosi al volere dei fondamentalisti indù, le autorità del Kandhamal hanno infatti destinato ai cristiani banditi minuscoli appezzamenti di terra abbandonata (0,04 acri) di proprietà demaniale e li hanno obbligati ad installarvisi, in tende comuni, senza acqua né corrente elettrica. Quando nel giugno 2010 le famiglie cattoliche hanno potuto entrare in possesso di nuove case, fatte costruire per loro dalla Believers Church in accordo con le altre confessioni cristiane, il loro posto nelle tende è stato assegnato dalle autorità ad una dozzina di nuclei battisti e protestanti. Quasi come un simbolo della fede intatta e fervente, nonostante le sofferenze, della comunità, file di pilastri in cemento, inizio dei lavori di costruzione di una nuova chiesa, si alzano in cima alla collina che sovrasta il nucleo abitativo: è l’opera fortemente voluta dalle 54 famiglie bandite, che con le loro sole forze la stanno erigendo e per questo si sono autoimposte ciascuna un contributo di 1.000 rupie (22 dollari). «I soldi che eravamo riusciti a mettere insieme sono però ormai finiti – riprende Chrisanto, coordinatore del progetto – e stiamo aspettando aiuti da fuori per portare a termine l’edificio».
Come a Beticola, ma per una ragione differente, anche nel villaggio di Borimunda, a due anni e mezzo dalle violenze, la maggior parte delle decine di case cristiane distrutte rimane ancora un ammasso di rovine. «Il proprietario non vive qui. Se ne è andato» spiega Vikram Nayak, insegnante, abitante del villaggio, indicando una grande casa ancora in costruzione ma abbandonata, in mezzo ad altre una volta abitate e oggi pesantemente danneggiate. «Chi ha qualche soldo e conoscenze da altre parti se ne va – continua – nessuno vuole sopportare le continue vessazioni e le intimidazioni che subiamo qui». Naveen Chandra Nayak, cattolico, militare in pensione, che oggi vive a Boribunda nella casa ancora parzialmente distrutta del fratello, domanda: «Come potremmo ricostruire le nostre case, quando alla popolazione indù viene proibito di portarci il materiale necessario con i loro veicoli?», e aggiunge: «Gli indù che violano il "boicottaggio sociale" imposto dai fondamentalisti vengono pesantemente puniti: un povero ortolano si è visto infliggere una multa di 100 rupie soltanto per aver venduto a cristiani i suoi prodotti. Per un totale di 2 rupie...».
Nel novembre scorso, Paul Nayak ha deciso di ricostruire la sua casa distrutta a Boribunda e ha portato della sabbia al villaggio per iniziare i lavori. Ma i fondamentalisti hanno intercettato il trattore con i materiali, l’hanno costretto a dirigersi verso il tempio locale ed hanno multato il conducente indù per 5.051 rupie, equivalenti a 110 dollari, ossia il salario di 50 giorni di lavoro: esempio di punizione inflitta in molti villaggi del Kandhamal a chi infrange il "boicottaggio sociale" verso i cristiani, che i fondamentalisti vogliono sempre più pressante. Eppure nel Natale scorso, nella danneggiata chiesa di Borimunda – altare distrutto, finestre e porte rotte a testimonianza visibile dei saccheggi e delle profanazioni del 2008 – è stata celebratata la Messa di mezzanotte. Qui un centinaio di cattolici, questa volta circondati da ingenti forze di polizia, hanno potuto, anche se con timore, ritrovasi finalmente insieme una preghiera comune. Un piccolo prodigio.
La visita a Gadaguda mostra come il boicottaggio sociale abbia agito anche contro cristiani benestanti che hanno avuto il coraggio di tornare alle proprie case nella speranza di ricostruire una vita sconquassata. «Questo boicottaggio ci sta paralizzando» ammette Junos Nayak, abitante del luogo, membro della Chiesa protestante dell’India del Nord (Cni), miracolosamente sopravvissuto a ferite da armi da fuoco, mentre il fratello maggiore Lalji fu ucciso durante l’attacco al villaggio. «Gli Indù non vogliono lavorare nei nostri campi, hanno paura, e questi rimangono improduttivi. Ci impediscono anche di attingere acqua dai loro pozzi – si dispera l’uomo seduto nella sua casa ricostruita dopo essere stata saccheggiata e data alle fiamme. – Siamo costretti a scavare nuovi pozzi per poter sopravvivere qui». «È triste, ma la nostra comunità si è dispersa dopo i massacri. Molti giovani e coloro che ne hanno la possibilità economica se ne sono andati dal Kandhamal – riprende Paul. – Migliaia di cristiani si sono diretti verso i grandi centri urbani alla ricerca di un lavoro che permetta loro di mantenere i genitori e ricostruire le case nel loro distretto».
Bajilo Digal e la moglie Debati hanno definitivamente rinunciato a tornare al villaggio di Gamarikia, da dove sono fuggiti dopo le razzie, adattandosi a vivere nella bidonville di Saliasahi a Bhubaneswar, capitale dell’Orissa. Sopravvivono grazie al lavoro di lui come addetto alle pulizie in vari negozi. «Con gli indù che non la smettono di minacciarci e porci come condizione, per poter vivere in pace in Kadhamal, la rinuncia al nostro Credo, è molto meglio restare in queste bidonville e praticare tranquillamente la nostra la nostra fede». «Sono almeno 6.000 i cristiani del distretto che hanno trovato riparo nelle bidonville di Saliashi insieme ad altri 50 mila sciagurati – afferma padre Bijay Kumar Pradhan, vicario generale per i cattolici del Kandhamal e coordinatore del programma di aiuti della Chiesa cattolica, che ha affittato una casa vicino al luogo. – Stiamo invitando il nostro popolo a ricostruire le proprie case nei villaggi, altrimenti perderebbero ogni legame con la loro terra».
Più della metà dei cristiani di questo territorio sperduto nella jungla appartengono all’Arcidiocesi di Cuttack-Bhubanswar. «A poco a poco la situazione sta migliorando – continua il Prelato – abbiamo aiutato 2.200 famiglie a ricostruire le abitazioni distrutte o danneggiate, e ora stiamo estendendo la nostra azione di assistenza ai bisognosi di molti altri villaggi. Ma – deve ammettere – e devastazioni sono state enormi e la strada da fare è lunga».
tratto da "Avvenire" 10 marzo 2011