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IRAN-ISRAELE

Iran-Israele, una guerra per cambiare gli equilibri in Medio Oriente

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I raid lanciati da Israele contro l'Iran non mirano solo a distruggerne il programma nucleare, ma a cambiare del tutto gli equilibri in Medio Oriente. Gli alleati regionali del regime di Teheran, Hamas, Hezbollah, Assad, sono già stati eliminati o ridotti a mal partito. L'influenza del regime è sempre più ridotta e si avvicina la prospettiva di un'alleanza Israele-Sauditi.

Esteri 17_06_2025
Battaglia di missili su Tel Aviv (La Presse)

L'attacco di Israele all'Iran tuttora in corso non è soltanto la prevedibile reazione dello Stato ebraico alla minaccia nucleare iraniana, di nuovo incombente, alla luce del rifiuto iraniano del tentativo di trattativa intrapreso dall'amministrazione Trump. E non è nemmeno un episodio nella ricorrente, drammatica schermaglia tra Gerusalemme e il regime degli ayatollah, come sono stati i due scambi di raid tra aprile e luglio del 2024.

Questa volta, fin dall'inizio dell'ambiziosa operazione (non a caso subito descritta esplicitamente come "guerra" dal governo di Benjamin Nethanyahu) la posta in gioco è subito apparsa ben più alta. È emersa chiaramente l'ambizione degli israeliani di infliggere al loro principale nemico esistenziale un danno talmente pesante da ottenere non soltanto l'arretramento del programma di arriccchimento dell'uranio a scopi bellici che Teheran ha continuato ostinatamente a perseguire, ma addirittura la fine per molto tempo ad ogni ambizione di potenza di quel regime, se non una sua possibile caduta. Tale obiettivo traspare anche dalle uccisioni mirate non soltanto degli scienziati e dei responsabili politici del programma nucleare, ma anche di alti vertici politici del regime come quelli del ministero dell'interno e della difesa, e dei capi dei pasdaran, che sono il vero braccio armato di esso.

Se si vuole comprendere appieno il significato di questa svolta occorre in primo luogo inquadrarla all'interno del più ampio contesto della modificazione radicale dell'assetto di potere e potenza nello scacchiere mediorientale dopo l'eccidio perpetrato da Hamas in Israele il 7 ottobre del 2023. A partire da quella data – a dispetto dell'intenzione dell'organizzazione islamista e dei suoi ispiratori di Teheran di bloccare l'avvicinamento tra Gerusalemme e i paesi arabi sunniti – si è messo in moto un processo di rapido, radicale indebolimento dell'Iran e dei suoi proxies in tutta l'area. Un processo iniziato con la impressionante reazione militare di Israele, proseguito con una serie di altri rivolgimenti, e rafforzato dall'elezione alla Casa Bianca di Donald Trump. Il quale, dopo la parentesi di nuovo appeasement verso Teheran segnata dall'amministrazione Biden, ha ripreso a tessere con decisione la tela interrotta degli "Accordi di Abramo", cominciati nel 2020, puntando a un loro coronamento attraverso un asse tra Israele e Arabia Saudita in funzione di argine invalicabile contro l'influenza iraniana.

Nell'arco di meno di un anno e mezzo quasi tutti i capisaldi dell'azione destabilizzante del regime degli ayatollah sono caduti, o sono stati crudelmente ridimensionati. Hamas è stata decapitata di quasi tutta la sua classe dirigente, ed è ora ridotta a una debolissima resistenza catacombale a Gaza nuovamente occupata. Hezbollah ha subito una sconfitta altrettanto cocente nel Sud del Libano, e a capo del paese confinante con Israele è stato eletto un presidente gradito ai Sauditi.

Il regime di Assad in Siria, alleato numero uno di Teheran nel cosiddetto "Asse della resistenza" contro Gerusalemme e protetto dalla Russia, è rovinosamente caduto, per far posto a un nuovo governo che è sì emanazione della Turchia e della Fratellanza Musulmana, ma ha per il momento assicurato rapporti pacifici con gli israeliani, ed è stato invitato da Trump, nella sua visita in Medio Oriente di qualche mese fa, ad entrare nelle trattative degli "Accordi di Abramo".

Gli Houthi in Yemen, rimasti l'arma di ricatto più efficace dell'Asse integralista contro l'Occidente per la loro capacità di bloccare il traffico petrolifero tra Oceano Indiano e Mar Rosso, sono stati pesantemente colpiti dai ripetuti raid dell'aviazione statunitense. Lo stesso Qatar è stato irretito dalla ragnatela diplomatica di Trump, e non sembra più in sintonia totale con gli iraniani.

Teheran è rimasta, insomma, sempre più isolata, mentre la convergenza di fatto tra Gerusalemme e "petromonarchie" si è andata cementando. E di questo si è avuta ulteriore, significativa conferma proprio in questi giorni, quando Gerusalemme ha lanciato la sua devastante offensiva. Infatti, al di là di una isolata dichiarazione di condanna di Riad, l'eloquente silenzio di quasi tutti i paesi arabi sunniti dimostra – aggiungendosi a ripetuti loro pronunciamenti contro la teocrazia sciita - che nei fatti essi considerano l'Iran come il loro principale antagonista, sono angosciati quanto gli israeliani dai suoi progetti nucleari e dal suo espansionismo, e lasciano volentieri che Israele, come e più di altre volte, faccia il "lavoro sporco" per loro colpendo dolorosamente Teheran.

L'ultimo, importante elemento per comprendere il contesto nel quale l'attuale conflitto si colloca è l'atteggiamento di Trump. Molti osservatori hanno osservato, quando l'attacco è stato lanciato, che l'amministrazione americana ha voluto marcare una qualche distanza dall'azione israeliana, specificando di non parteciparvi direttamente. E che questo potrebbe essere indice sia di una divisione dei compiti tra i due alleati ("poliziotto buono/poliziotto cattivo") sia di una certa irritazione del presidente statunitense, che all'apertura di un nuovo fronte di guerra avrebbe preferito la continuazione dei contatti e l'avvio delle trattative con il regime iraniano. Un'impressione che parrebbe corroborata dalla dichiarazioni rilasciate da Trump domenica, in cui egli rilancia l'idea di un deal da lui sponsorizzato tra Gerusalemme e Teheran per porre fine al conflitto, e addirittura, dopo una conversazione telefonica con Vladimir Putin, si dichiara disponibile ad un ruolo di quest'ultimo come mediatore.

La verità, in proposito, potrebbe stare nel mezzo. Da un lato, è chiaro che lo scenario più gradito a Trump sarebbe un ridimensionamento decisivo delle ambizioni di potenza di Teheran nell'area attraverso un processo negoziale pacifico, piuttosto che attraverso un conflitto che, comunque, rischierebbe, se si protraesse, di minare i delicati equilibri che egli sta cercando di consolidare – e, per esempio, di aprire nuovi spazi di penetrazione alle ambizioni di Ankara. Ma, per altro verso, il colpo terribile inferto a Teheran proprio il giorno dopo la scadenza da lui indicata per riprendere i negoziati sul nucleare è una conferma, davanti al mondo, del fatto che è sempre più lui a "dare le carte" nel nuovo ordine mediorientale. E, se il colpo fosse talmente forte da portare ad un regime change in Iran, o quanto meno a una transizione verso un governo meno estremista, questa potrebbe essere un'ulteriore occasione per lui per portare avanti quel "grande gioco" strategico in cui i rinnovati equilibri mediorientali si legano alla soluzione del conflitto russo-ucraino.

Favorire un accordo di pace con Kiev complessivamente favorevole a Mosca, e nel contempo confermare, in una chiave di rappacificazione con Israele, l'influenza russa su Teheran, significherebbe infatti per il presidente statunitense sgombrare ulteriormente la strada per l'accordo Gerusalemme-Riad, che prevederebbe il protettorato saudita su Gaza e l'ingresso dei Sauditi nel Mediterraneo.