Suicidio, la Consulta mutila la legge toscana e fa un assist al Parlamento
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La Corte Costituzionale non annulla integralmente la legge regionale della Toscana sul suicidio assistito, ma ne boccia diverse parti salvando solo quelle «a carattere meramente organizzativo e procedurale». Il piano inclinato resta, ma dalla sentenza emergono due conferme: non occorre una norma procedurale statale e il Parlamento può modificare i principi stabiliti dalla Consulta stessa.
- Una Corte Costituzionale "a doppio registro", di Daniele Trabucco
La sentenza della Corte Costituzionale sulla legge regionale toscana sul suicidio assistito era attesa: quella legge è il frutto di una campagna organizzata dall’Associazione Luca Coscioni in tutte le regioni italiane, per cercare di costringere il Parlamento nazionale ad approvare la legge che, attualmente, è in discussione.
La Corte Costituzionale ha dichiarato la parziale illegittimità della normativa regionale, ma ha rigettato la richiesta di un suo integrale annullamento: cosicché è inevitabile chiedersi chi ha prevalso in questo braccio di ferro tra Governo nazionale e Governo regionale, non a caso espressioni di maggioranze contrapposte. Per rispondere alla domanda, si deve sottolineare la natura “tecnica” della decisione della Corte che non era stata nuovamente chiamata a definire i limiti del suicidio assistito reso non punibile dalla sentenza n. 242 del 2019, ma a valutare la legge regionale alla luce dell’art. 117 della Costituzione: un articolo assai importante nell’organizzazione del Paese, perché individua le materie su cui lo Stato ha competenza esclusiva e le Regioni non possono legiferare, quelle su cui la competenza legislativa spetta sia allo Stato che alle Regioni e, infine, quelle di esclusiva competenza delle Regioni.
L’Ufficio comunicazioni della Corte Costituzionale ha intitolato il comunicato stampa facendo intendere che, in sostanza, la Corte ha dato ragione alla Toscana: “Non è illegittima l’intera legge toscana sul fine vita, ma varie sue disposizioni violano competenze statali”. In realtà, non è affatto così: a ben vedere, la Corte ha “salvato” la legge regionale solo nella parte in cui detta norme «a carattere meramente organizzativo e procedurale», perché, osserva la sentenza, «la legge regionale intende […] regolare le prestazioni che la pubblica amministrazione regionale e, segnatamente le singole aziende sanitarie regionali, sono tenute a fornire sulla base dei principi enunciati dalla giurisprudenza di questa Corte».
Sì, perché la sentenza n. 242 del 2019, oltre a rendere non punibile l’aiuto al suicidio in presenza di determinati presupposti, disegnava e rendeva obbligatoria una procedura di verifica preventiva della loro sussistenza: richiedeva, quindi, una richiesta dell’aspirante suicida cui deve seguire tale verifica «affidata […] a strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale», cui spetta anche la verifica delle modalità di esecuzione del suicidio; non solo: la Corte pretendeva l’intervento di un organo terzo, per garantire la tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità, individuato nei comitati etici territorialmente competenti. Quella sentenza determinava inevitabilmente il coinvolgimento delle strutture sanitarie nella richiesta di suicidio assistito; cosicché, in qualche modo, le Aziende sanitarie, il cui funzionamento dipende dalla Regione, devono “organizzarsi”: chi riceve la domanda, chi deve effettuare le verifiche, quale organo deve intervenire, come rapportarsi con il comitato etico e così via. Alcune Regioni si sono “organizzate” mediante provvedimenti di carattere amministrativo; la Regione Toscana ha scelto di darsi una legge che determina, appunto, le “Modalità organizzative” (come recita il titolo della legge).
Ma la Toscana – come subito molti avevano notato – è andata ben oltre e la Corte ha cassato tutte le disposizioni della legge regionale con le quali la Regione pretendeva «di sovrapporsi indebitamente o addirittura di modificare gli stessi principi fondamentali in materia di salute stabiliti dalla legislazione statale».
Quali disposizioni vengono dichiarate illegittime (quindi: annullate)? La prima sorpresa riguarda l’art. 2 della legge, che si limitava a ribadire i requisiti per l’accesso al suicidio assistito richiamando le sentenze della Corte Costituzionale e la legge sul consenso informato: una norma apparentemente superflua, ma che la Corte censura perché – si legga bene questo passaggio, che richiameremo alla fine – «alla regione è […] precluso cristallizzare nelle proprie disposizioni principi ordinamentali affermati da questa Corte in un determinato momento storico – in astratto, anch’essi suscettibili di modificazioni – e oltretutto nella dichiarata attesa di un intervento del legislatore statale». «Suscettibili di modificazioni»: un’espressione impegnativa!
Resta in piedi la Commissione multidisciplinare permanente istituita dalla Regione, ma solo perché non fa venire meno la competenza del comitato etico stabilito dalla Corte nella sentenza n. 242; quindi, la Commissione non muta la sostanza della procedura di cui si è detto.
Viene severamente – e giustamente – cassata la scandalosa disposizione che prevedeva che la richiesta di suicidio assistito potesse provenire da un “delegato” del paziente. La Corte osserva che «la decisione di congedarsi dalla vita (deve essere) presa direttamente dalla persona, che deve avere la piena capacità di assumere decisioni libere e consapevoli». Quella previsione non era affatto frutto di una disattenzione: si intravedeva l’intervento di terze persone nella decisione sul suicidio di certi pazienti. Sappiamo bene che la bandiera dell’autodeterminazione assoluta (“Nessuno può decidere per te sulla tua vita!”) nasconde innumerevoli casi opposti, nei quali la persona non è affatto libera nella sua richiesta di morire, ma è vittima di una situazione di fragilità, nonché di pressioni e interferenze di altri soggetti. L’ideologia dell’eutanasia richiede che determinate categorie di persone siano uccise, che lo vogliano davvero o che non desiderino affatto la morte, ma piuttosto vicinanza, affetto, cure, terapie del dolore, cure palliative. Ecco che il “delegato” che la Regione Toscana aveva fatto comparire rappresentava colui che, piuttosto che essere vicino alla persona sofferente, ne favoriva la morte anticipata.
Vengono annullate anche le norme che stabilivano tempi rapidi e perentori per giungere alla risposta: sì, puoi suicidarti! Si trattava di una norma “manifesto”: il preambolo della legge, dopo avere garantito «una morte rapida, indolore e dignitosa», osservava che «i tempi e le procedure rappresentano elementi fondamentali». Insomma: il sofferente che chiede di morire deve essere soddisfatto subito, vi è una condizione “di estrema urgenza”. La Corte ha avuto buon gioco ad osservare che tali norme contrastano la necessità di «un accertamento medico accurato della sussistenza dei […] requisiti, sia sotto il profilo della condizione sanitaria dell’interessato, sia sotto quello della formazione della volontà in modo libero e autonomo» e ha richiamato la necessità di un’alleanza terapeutica tra medico e paziente, ricordando il rischio che le strutture sanitarie non offrano ai sofferenti concrete possibilità di accedere alle cure palliative. Le cure palliative, quella reale presa in carico del paziente sofferente, quel “prerequisito” indicato dalla Corte Costituzionale, sostanzialmente ignorato dalla legge regionale, che fa riferimento solo ad una “informazione”.
Viene annullato l’art. 7, che prevedeva il “supporto alla realizzazione della procedura di suicidio medicalmente assistito” e, quindi, il coinvolgimento totale delle strutture sanitarie nell’esecuzione del suicidio, definitivamente trasformato in un diritto soggettivo ad ottenere tale prestazione. Su questo aspetto la sentenza mostra le incertezze che – si intuisce – turbano la Corte: la sentenza, infatti, ribadisce che la persona, in presenza dei presupposti indicati dalla sentenza n. 242, ha “diritto” di ottenere dalle aziende del Servizio Sanitario regionale «il farmaco (sic!), i dispositivi eventualmente occorrenti all’autosomministrazione nonché l’assistenza sanitaria anche durante l’esecuzione di questa procedura» e aggiunge (!) che esiste «l’opportunità che il personale sanitario coinvolto – anche al fine di evitare possibili responsabilità penali – attesti le modalità esecutive della procedura e l’esito della stessa»; tuttavia chiarisce che, trattandosi di suicidio, deve essere il paziente ad autosomministrarsi il farmaco: quindi non vi è una «erogazione» di un trattamento da parte del servizio sanitario, «ma piuttosto un’assistenza dei sanitari a una persona che dovrà compiere da sé la condotta finale che direttamente causa la propria morte».
In definitiva, della legge regionale toscana rimangono solo le norme organizzative che non mutano affatto il quadro – purtroppo – disegnato dalle sentenze della Corte Costituzionale. Questo, in verità, interessa assai poco a chi difende la vita e che deve prendere atto che la Corte è ormai immersa nella logica della legittimità del suicidio assistito e, con le sue sentenze, mostra eloquentemente quanto sia realistica la teoria del “pendio scivoloso”: è stata la stessa Corte a spalancare lo spiraglio aperto con la sentenza n. 242 del 2019 per casi che, nel 2019, nemmeno prevedeva. La Corte accompagna questa sua giurisprudenza con accorate raccomandazioni sulla tutela dei fragili, sulla possibilità per tutti i sofferenti di accedere alle cure palliative, sulla necessità di verificare costantemente la reale volontà di chi chiede di morire. Qualcuno potrebbe pensare che si tratti di ipocrisia.
Due elementi da sottolineare. In un primo passaggio la sentenza osserva che la «procedura medicalizzata di assistenza al suicidio» è già regolata dalla legge sul consenso informato e dalle stesse sentenze della Corte: quindi, è autoapplicativa. In sostanza, a prescindere dalle misure organizzative che le Regioni hanno adottato o adotteranno per “gestire” le richieste, non occorre una norma procedurale statale. Infatti, in molte regioni, alcune persone sono state aiutate a suicidarsi pur mancando una normativa specifica.
Il secondo passaggio è quello prima segnalato: la Corte Costituzionale afferma che i principi stabiliti nella sentenza n. 242 devono considerarsi adottati «in un determinato momento storico» e sono «in astratto, anch’essi suscettibili di modificazioni»! Cosa vuol dire: «in astratto»? Esattamente l’opposto: che, cioè, il Parlamento può concretamente modificare questi principi. Quindi: una legge nazionale di attuazione delle sentenze della Corte Costituzionale – che non si finirà mai di criticare! – non è affatto necessaria! E una legge che muti i principi generali stabiliti dalla sentenza n. 242 può invece essere adottata dal Parlamento!
E allora modifichiamoli questi principi! Tuteliamo davvero la vita delle persone fragili, degli anziani, dei malati gravi, dei disabili!
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