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il caso

Carabiniere ucciso, le tutele negate e gli errori evitabili

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L'assassinio del del brigadiere Legrottaglie riaccende la discussione sullo scudo materiale che avrebbe potuto salvargli la vita e su quello penale per i due agenti raggiunti da un avviso di garanzia per averlo difeso uccidendo il colpevole.

Attualità 17_06_2025
foto Donato Fasano/LaPresse

L’omicidio del brigadiere Carlo Legrottaglie, avvenuto a Francavilla Fontana, in Puglia, ha riportato al centro del dibattito pubblico e politico due questioni fondamentali: la sicurezza operativa delle forze dell’ordine e la loro tutela processuale. Legrottaglie, 59 anni, è stato colpito a morte durante un inseguimento. Il suo assassino, il pregiudicato Michele Mastropietro, è stato poi ucciso da due agenti di polizia intervenuti nella stessa operazione. In seguito, quei due agenti si sono visti recapitare un avviso di garanzia per omicidio colposo, un atto dovuto secondo la prassi giudiziaria italiana, ma che ha suscitato immediate reazioni politiche.

Il dolore per la perdita del carabiniere si è trasformato in indignazione quando è emerso che, dopo essere intervenuti per porre fine alla fuga dell’assassino, i poliziotti ora rischiano un processo. La morte del brigadiere e le conseguenze per chi lo ha difeso hanno così riacceso la discussione attorno a due “scudi”: quello materiale, cioè una protezione fisica che avrebbe potuto forse salvare la vita a Legrottaglie, e quello penale, la tutela procedimentale invocata per gli agenti che usano l’arma in servizio.

Il decreto Sicurezza, entrato in vigore il 10 giugno 2025, non contiene esplicitamente l’obbligo di dotare le forze dell’ordine di scudi protettivi, ma tra le sue disposizioni sono previsti interventi per garantire una maggiore tutela al personale, dalla formazione all’utilizzo di equipaggiamenti più idonei in situazioni a rischio. Proprio su questo punto si innesta la prima riflessione: se il carabiniere Legrottaglie avesse avuto un’adeguata protezione balistica, oggi forse sarebbe vivo. Il nuovo decreto, formalmente denominato “decreto-legge 11 aprile 2025, n. 48”, include misure urgenti per la sicurezza pubblica e la tutela del personale in servizio, e alcuni osservatori si domandano se una rapida e piena applicazione delle sue previsioni avrebbe potuto evitare questa tragedia.

Ma è l’altro scudo, quello penale, ad aver incendiato il dibattito politico. Dopo il caso Legrottaglie, la Lega ha rilanciato con forza la propria storica battaglia per la tutela procedimentale degli operatori di polizia. Nicola Molteni, sottosegretario leghista all’Interno, ha dichiarato: «Mi schiero senza se e senza ma dalla parte dei nostri straordinari poliziotti che hanno fermato il killer del brigadiere Legrottaglie, ma ai quali sono stati notificati avvisi di garanzia. Ora serve immediatamente la tutela processuale, che non è uno scudo penale né uno strumento di impunità. Stop all’automatismo nell’iscrizione nel registro degli indagati per chi agisce nell’adempimento del dovere».

Sulla stessa linea anche Andrea Ostellari, sottosegretario alla Giustizia, che ha sottolineato come «l’informazione di garanzia non è mai indolore» e che «la Lega propone di costruire una nuova disciplina per assicurare chiarezza nell’accertamento dei fatti e tranquillità agli agenti».

La proposta, che era stata inizialmente prevista nel decreto Sicurezza e poi accantonata durante la conversione in legge, è stata ora riaperta con forza anche da Fratelli d’Italia. Mauro Malaguti, deputato di FdI, ha ricordato che «i due agenti hanno messo a rischio la propria vita per fermare soggetti estremamente pericolosi, colpevoli dell’omicidio del militare. E ora, paradossalmente, rischiano un processo penale e si vedono bloccata la carriera sino alla fine del procedimento». Il governo, che già a gennaio aveva chiarito che non si trattava di uno scudo penale in senso tecnico ma di una disciplina procedurale diversa, ha confermato la volontà di affrontare nuovamente la questione in un provvedimento separato.

L’obiettivo non è introdurre una nuova scriminante o una causa di non punibilità, bensì intervenire sul Codice di procedura penale per evitare l’immediata iscrizione nel registro degli indagati quando appare evidente che l’uso della forza da parte degli agenti sia avvenuto nell’esercizio delle loro funzioni. In altre parole, come spiegano fonti di governo, si tratta di distinguere i casi in cui l’uso dell’arma è giustificato da quelli in cui non lo è, evitando automatismi che possono trasformarsi in punizioni indirette.

Tuttavia, non mancano le voci critiche. Pietro Colapietro, segretario nazionale del Silp-Cgil, ha precisato che «il problema per un poliziotto non è solo essere indagato. Il nodo vero sono i costi legati al sacrosanto diritto di difendersi in tribunale». Sebbene il decreto Sicurezza abbia elevato da 5.000 a 10.000 euro per ciascuna fase del processo l’anticipo delle spese legali per fatti di servizio, secondo Colapietro tale somma potrebbe non coprire l’intero onere, soprattutto in caso di perizie di parte.

Anche l’avvocato Giorgio Carta, che difende uno degli agenti indagati, ha messo in guardia sul rischio che «la tutela resti sulla carta». In effetti, la dicitura «atto dovuto», pur essendo tecnicamente corretta, viene spesso percepita come una forma di accusa, con conseguenze pratiche sulla carriera degli agenti coinvolti.

È qui che la proposta leghista cerca di intervenire: non per sottrarre i poliziotti alla giustizia, ma per garantire un primo filtro che eviti conseguenze sproporzionate in casi palesi di legittima difesa. In un contesto in cui le forze dell’ordine si trovano sempre più spesso ad agire in condizioni di rischio estremo, è necessario domandarsi se le tutele esistenti siano sufficienti e se lo Stato stia davvero facendo tutto il possibile per proteggerle, sia fisicamente che giuridicamente.

Lo scudo che avrebbe potuto salvare Carlo Legrottaglie è dunque duplice: uno reale, fatto di kevlar e protezioni, l’altro legale, pensato per evitare che chi salva vite venga poi trascinato in un incubo giudiziario. La sua morte ha posto di nuovo sotto gli occhi di tutti il peso che portano coloro che indossano una divisa. E ora, tra memoria, dolore e tensioni politiche, resta l’interrogativo su quale sarà davvero la risposta dello Stato.