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EX BIRMANIA

Myanmar: il golpe e i Rohingya, le percezioni cambiano in fretta

Del Myanmar, finora, si parlava solo per la persecuzione dei Rohingya e se ne attribuiva la colpa ad Aung San Suu Kyi. Adesso la leader democratica è tornata ad essere vittima e si scopre che i veri colpevoli dei massacri erano i militari. Ma quanto è pesato il discredito occidentale sulla "Signora"?

Esteri 09_02_2021
Aung San Suu Kyi all'Aia, testimonia sui Rohingya

Il generale Min Aung Hlaing, autore del colpo di Stato in Myanmar (ex Birmania) ha giustificato con un discorso televisivo la sua presa del potere. Ritiene di essere dalla parte della legge e di essere intervenuto per rettificare delle elezioni truccate. Che la certificazione della Commissione elettorale non è legale. E che il potere della giunta militare durerà quel tanto che basta per ripetere le elezioni, con nuove leggi e una nuova Commissione.

Le sue parole sono state accolte dai manifestanti con un concerto spontaneo di pentole suonate a mo’ di timpani con i cucchiai. La piazza, per il terzo giorno di fila, è dominata dalle manifestazioni dell’opposizione della Lega Nazionale per la Democrazia, nonostante i social network siano stati soppressi nel Paese e Internet sia chiusa ripetutamente. Il partito che ha vinto le elezioni con l’83% dei voti, non si arrende alla sopraffazione del potere militare. I militari hanno imposto regole più stringenti e il coprifuoco dalle 20 alle 4 del mattino, ma finora non hanno reagito con violenza. Sono stati impiegati metodi all’occidentale, come gli idranti per disperdere le manifestazioni. Ma è ancora forte il timore di veder ripetere il bagno di sangue del 1988, quando le manifestazioni democratiche vennero represse con l’uso delle armi.

In questo braccio di ferro fra un governo civile incarcerato e una giunta militare al potere, la piazza democratica ha trovato un insolito alleato: gli attivisti Rohingya, la minoranza musulmana perseguitata, sperano che il colpo di Stato militare possa dare inizio a un inatteso fronte comune. Nel 2017 i militari birmani hanno iniziato una dura campagna repressiva nella regione di Rakhine, al confine con il Bangladesh, a seguito di una serie di atti di terrorismo e guerriglia di gruppi estremisti Rohingya. La popolazione del Myanmar, che in maggioranza schiacciante è di etnia birmana e di religione buddista, non ha mai nutrito simpatia nei confronti dei musulmani Rohingya, considerati come degli immigrati del Bangladesh. La campagna repressiva ha portato all’espulsione e alla fuga dei Rohingya nel Paese vicino.

Ora l’umore è completamente cambiato, stando a quanto riferisce Nay San Lwin, attivista della minoranza musulmana in esilio in Germania. “Stanno realizzando, adesso, che il comune nemico è l’esercito”, ha confidato al suo intervistatore del Time dopo aver ricevuto moltissimi messaggi di solidarietà da parte di birmani (che fino alla fine di gennaio gli scrivevano praticamente solo per insultarlo). Il golpe del 1 febbraio, dunque, è servito alla popolazione del Myanmar per ribaltare la prospettiva: il nemico tirannico e militare, al vertice del Paese, è peggio del vicino musulmano. E per quest’ultimo, la popolazione buddista birmana è diventata potenzialmente alleata contro i persecutori militari.

Ma il golpe ha ribaltato la prospettiva anche nella comunità internazionale? Dal 2017 di Myanmar si parlava solo per la persecuzione dei Rohingya. La premier (de facto) Aung San Suu Kyi, invitata a comparire di fronte alla Corte Penale Internazionale dell’Aia, ha difeso l’operato dell’esercito, affermando che si trattasse di una risposta al terrorismo, che non vi fosse alcuna pulizia etnica in corso (perché il governo ha anche invitato i profughi in Bangladesh a rientrare in patria) e che il governo stesse indagando sui crimini commessi dall'esercito. Ma nessuno pare averle dato credito. Una diplomazia internazionale che legge il mondo attraverso lenti umanitarie, e ha un occhio di riguardo sui diritti dei musulmani, si è ribellata e ha iniziato a considerare la leader democratica, premio Nobel per la Pace, come il vero problema dei diritti umani nel Myanmar. Così facendo, però, sono stati commessi due errori di percezione. Il primo è quello di considerare i Rohingya solo come vittime e non anche come carnefici. I movimenti terroristi dei Rohingya, come abbiamo già a suo tempo ricordato su queste colonne, esistono e commettono crimini ai danni di non musulmani, non sono un’invenzione dell’esercito. Il secondo errore di percezione è stato quello di prendere di mira Aung San Suu Kyi e non l’esercito, che è il vero responsabile dei massacri di civili. Probabilmente troppi governi occidentali hanno sopravvalutato il suo potere di intervento per modificare il corso degli eventi in un Paese ancora controllato dai militari. E nell’opinione pubblica è prevalsa la delusione per una donna icona della non-violenza che tace o addirittura consente una repressione armata.

Non appena i militari hanno conquistato il potere con la forza, il 1 febbraio, in Occidente la percezione è cambiata di nuovo, improvvisamente come sempre. Adesso Aung San Suu Kyi torna ad essere considerata vittima della giunta militare. E la linea comune a tutte le democrazie occidentali è l’appoggio al ripristino del suo governo civile. E’ però difficile valutare quanti danni abbia provocato l’atteggiamento di ostilità nei suoi confronti prima del golpe. Sicuramente le proteste degli U2 e di Bob Geldof, il ritiro delle onorificenze che le università britanniche le avevano conferito, il ritiro della cittadinanza onoraria canadese, la revoca del premio Sakharov da parte dell’Ue e del premio “Ambasciatore della coscienza” da parte di Amnesty International, non l’hanno rafforzata. I militari sono andati a colpo sicuro: oltre che essere forti dell’appoggio cinese erano convinti di distruggere una donna politica ormai invisa alle potenze occidentali.