Morti di Covid, cosa c'è dietro le cifre della paura
Ormai risulta chiaro che sulle cifre della mortalità da Covid diffuse quotidianamente pesa enormemente l'incertezza sulle reali cause del decesso per chi risulta in qualche modo positivo al tampone. Ma quei numeri vengono usati per imporre regimi di emergenza, che a loro volta alimentano il panico per conservare il consenso.
Uno spettro si aggira da molti mesi per l'Italia afflitta dalla pandemia di Covid: quello dei criteri con i quali vengono calcolati i morti del virus.
La situazione in merito è davvero paradossale. Da lungo tempo, anche da parte delle autorità sanitarie, si ammette che vengono considerati morti per Covid anche quanti erano affetti da altre patologie, ma sono risultati positivi al tampone diagnostico, pur senza avere alcuna certezza che l'infezione virale in questione sia stata la causa effettiva dei decessi. Eppure non soltanto questa esplicita ammissione non conduce le autorità a rivedere i criteri di conteggio per offrire cifre più affidabili, ma al contrario quei numeri tanto opachi vengono utilizzati spregiudicatamente dal governo, dal comitato tecnico-scientifico e dai grandi media come mezzo principale per indurre allarme nell'opinione pubblica e giustificare l'adozione di misure restrittive generalizzate alle attività economiche e alle libertà personali dei cittadini: come si sta verificando per l'ennesima volta proprio in questi giorni.
Già nello scorso giugno un report dell'Istituto Superiore di Sanità chiariva che per dichiarare un decesso da Covid occorreva la compresenza di quattro fattori: l'essere risultato positivo al tampone, un quadro clinico compatibile col virus, la “assenza di una chiara causa di morte diversa dal Covid”, e l'”assenza di un periodo di ricovero clinico” tra la malattia e il decesso. In pratica, se qualcuno era positivo al tampone, aveva febbre o altri sintomi propri anche del virus e non era certo fosse morto di altro, pur soffrendo di altre patologie gravi (cancro, malattie caridovascolari, altre infezioni), poteva essere classificato automaticamente, a discrezione dei sanitari, come morto di Covid.
E non ci sono dubbi che i decessi siano stati, da allora, enumerati secondo queste maglie incredibilmente larghe. Lo dimostrano i dati forniti recentemente dalle regioni Lombardia e Piemonte, secondo i quali solo il 10% dei morti classificati come Covid proviene dalle terapie intensive. Il che significa che tutti gli altri sono etichettati come tali perché risultati positivi al tampone o al momento del ricovero o dopo la morte, e che il loro trapasso non è stato causato dal virus ma da altri fattori.
L'ambiguità nella conta delle vittime, e dunque la manipolabilità estrema di essa, non è soltanto italiana, ma comune ad altri paesi dell'Europa occidentale, nei quali si è instaurato da tempo un vero e proprio circolo vizioso tra “narrazione” allarmista ed enfatica sull'epidemia di Covid e politiche ormai note come “lockdown”.
In Italia, Francia, Regno Unito, Belgio, Spagna (oltre che in alcuni stati della costa Est degli Usa) il virus ha avuto, tra febbraio e maggio, un impatto in termini di mortalità e letalità molto maggiore che nel resto del mondo: soprattutto perché il Covid attacca con particolare forza soggetti molto anziani e debilitati da altre patologie legate all'età; e non soltanto le popolazioni di quei paesi figurano tra le più anziane del mondo, ma più spesso, per la disgregazione dei nuclei familiari, i loro anziani sono ospitati in strutture comunitarie come gli ospizi.
A ciò si aggiunge il fatto che nella fase iniziale dell'epidemia i governi di quei paesi hanno seguito in maniera pedissequa indicazioni provenienti dall'Oms rivelatesi poi del tutto sbagliate, come quella di limitare lo screening diagnostico ai sintomatici, causando così una dicotomia tra ammalati abbandonati a casa senza nemmeno una diagnosi e pazienti disordinatamente ospedalizzati, con una vera e propria esplosione dei casi proprio tra i soggetti in cui il virus faceva maggiori danni.
Il panico prodotto dai picchi di mortalità segnati in primavera è stato il motore fondamentale che ha spinto quei governi ad adottare come principale misura per contrastare il virus il “distanziamento sociale”: non soltanto sospensione della didattica nelle scuole e degli eventi di massa, ma un vero e proprio confinamento esteso all'intera società, lasciando operative soltanto le attività essenziali. Nella fase successiva, però, i regimi di eccezione instaurati a partire dall'adozione di quelle misure – per cui in Italia si è giunti alla proroga ripetuta di uno stato di emergenza già non previsto dalla Costituzione – hanno cominciato ad autoalimentarsi e conservarsi proprio grazie alla “narrazione” catastrofista: veicolando la tesi di una costante minaccia pandemica pronta a riesplodere, poi identificata con la tante volte evocata “seconda ondata” autunnale, e indicando la fine della minaccia soltanto nell'arrivo del vaccino, evocato con toni escatologico-millenaristici.
In sintesi, il panico ha alimentato i regimi di emergenza, e a loro volta i regimi di emergenza, per giustificarsi e conservare il consenso, hanno alimentato il panico.
A tale scopo sono stati utilizzati in maniera spregiudicata sia i risultati dei tamponi (con la equiparazione indebita tra positivi, in realtà per la quasi totalità asintomatici, e ammalati), sia i numeri dei ricoveri (gonfiati enormemente dall'ammissione di positivi paucisintomatici che avrebbero potuto molto meglio essere seguiti a domicilio) sia, infine, le cifre dei morti, fornite senza le necessarie specificazioni, ma in realtà costruite in base ai criteri amplissimi esposti sopra.
La dimostrazione di ciò è data dal fatto che da quando, con la stagione autunnale, in tutta Europa i contagi sono decisamente aumentati si riscontra una sensibile differenza, nel numero delle vittime, tra i citati stati euro-occidentali e il resto del continente; o, per essere più precisi, tra gli Stati che hanno continuato ad adottare politiche di lockdown e quelli che hanno rifiutato di farlo, promuovendo alcune restrizioni ma mantenendo in massima parte la normalità della vita economica e sociale (paesi scandinavi e slavi in primo luogo, ma anche in misure diverse Germania, Austria, Svizzera, Belgio, Olanda). Mentre nei primi il tasso di letalità, pur decisamente inferiore a quello di primavera, sale spesso su livelli superiori all'1%, nei secondi si mantiene bassissimo, spesso tendente più ai millesimi che ai centesimi.
E' evidente, dunque, che in questi ultimi il computo avviene con criteri molto più restrittivi e selettivi. In tal caso, si deve giungere alla conclusione che i lockdown sono figli di una campagna manipolatoria di disinformazione. E se pure per avventura non fosse così, allora vorrebbe dire che la gestione del contrasto all'infezione, nel primo gruppo di nazioni, è talmente inefficiente da provocare molti più morti, e che dunque le politiche di lockdown sono del tutto sbagliate.
In entrambe le eventualità, l'emergenzialismo sanitario emerge inequivocabilmente come una risposta sbagliata: o per dolo, o per colpa.