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IL PUNTO

Morti da Covid come in guerra? I dati dicono altro

Le stime sul forte aumento di decessi nel 2020 alimentano il clima di paura che supporta la politica del "tutti in casa". Ma un esame attento dei dati dimostra che sul tavolo degli imputati va messa la gestione politica e sanitaria dell'emergenza.

Attualità 17_12_2020

È ragionevole ritenere che nel 2020 supereremo in Italia i 700mila decessi, come nel 1944, in piena Seconda guerra mondiale. Questo concetto, espresso dal presidente dell’Istat Giancarlo Blangiardo su RaiTre ha - non sorprendentemente - scatenato ancor più i fautori del “chiudere tutto”, soprattutto a Natale. Sugli scudi come al solito Walter Ricciardi, gran consulente del Ministro della Salute, che - interpretando a suo modo Blangiardo - ha immediatamente rilanciato su La7: «Siamo in una situazione di guerra, con un record di mortalità superiore a quello del 1944», e in più siamo colpiti da «bombe che non si vedono».

Il dato oggettivo è certamente preoccupante, e non è difficile individuare nel Covid la causa principale dell’impennata di decessi (nel 2019 erano stati 647mila, ha detto Blangiardo, anche se il dato ufficiale dice 634.432). Ma sia sui numeri che sulle ragioni è bene fare un po’ di chiarezza visto che in Italia c’è una drammatica tendenza a buttare tutto in caciara (politica) invece che analizzare seriamente i dati.

Intanto, se è vero che quest’anno è previsto il record assoluto dei decessi (se il database dell’Istat dice il vero nel 1944 ci sono stati 679.837 morti), parlare di una mortalità superiore a quella della Seconda Guerra mondiale – come sostiene Ricciardi - è una colossale sciocchezza. Nel 1944 la popolazione italiana era di 44 milioni, oggi sfiora i 60. Non c’è bisogno neanche di fare i calcoli per capire la differenza di mortalità. Non solo, la composizione della popolazione è molto diversa: nell’ultimo dato disponibile prima della Seconda Guerra mondiale (1936) gli ultra 65enni rappresentavano il 7,6% della popolazione (diventato l’8,8 al censimento del 1951). Ma oggi gli ultra65enni rappresentano ben il 23,2% dell’intera popolazione, con ovvie ricadute nel caso di pandemie come quella attuale, che è letale soprattutto per le persone più anziane e/o con patologie pregresse.

Una parola va detta anche sulle variazioni annuali. Stando a certi commenti sembrerebbe che esista un livello normale e atteso di mortalità, tale che le variazioni da un anno all’altro sono minime. In realtà i decessi annuali hanno molte oscillazioni. Basti pensare che aumenti di 20mila decessi e oltre si sono verificati dal dopoguerra ben 15 volte, di cui ben sei negli ultimi venti anni. E anche oscillazioni della dimensione attesa quest’anno non sono una novità: è già accaduto nel 1956 (+51mila decessi rispetto all’anno precedente), nel 1962 (+41mila), nel 2015 (+50mila) e in misura minore anche nel 2017 (+34mila).

Interessante il caso del 2015. Curiosamente nelle cronache troviamo ancora l’allarme del professor Blangiardo (allora non ancora presidente dell’Istat) che paragona anche il picco del 2015 a quello delle due guerre mondiali; eppure non c’era il Covid. Uno studio del ministero della Salute, pubblicato su Epidemiologia & Prevenzione, associava l’impennata di decessi all’epidemia influenzale (in gran parte, visto che in quell’inverno fu particolarmente pesante) e all’ondata di calore che si registrò in estate. Ovviamente su questi fattori giocava la sua parte anche l’invecchiamento della popolazione.

In ogni caso certi dati dovrebbero portare a riconsiderare il riferimento - che spesso si fa per negare qualsiasi comparabilità con il Covid - alla “semplice influenza”. Tanto che anche nel 2017 - ancora un’influenza pesante - si è avuta un’altra impennata di decessi (+34mila rispetto all’anno precedente). Peraltro uno studio pubblicato sull’International Journal of Infectious Disease rileva che dal 2013 al 2017 c’è stato in Italia un incremento del tasso di mortalità durante la stagione invernale, dovuto in gran parte all’influenza, soprattutto negli inverni 2014-2015 e 2016-2017, quando predominante era il ceppo A(H3N2), «il più comunemente associato alla mortalità influenzale negli anziani».

Ma torniamo al 2020 e al Covid. Possiamo affermare che tutto l’eccesso di mortalità è dovuto direttamente al virus? Anche qui si deve fare attenzione. Se non va sottostimata la pericolosità del virus, si devono però considerare anche altri fattori. Torniamo all’analisi che Blangiardo fece a proposito dell’impennata di decessi del 2015. Pur non volendo dare sentenze definitive, avanzava però con forza un’ipotesi molto chiara: ovvero la realtà di «un sistema socio-sanitario che, dopo averci abituati al continuo allungamento della vita, con guadagni sensibili anche in corrispondenza delle età anziane, inizia a mostrare i limiti e i condizionamenti derivanti da una congiuntura economica meno favorevole». In altre parole, «gli effetti della crisi, i tagli di cui sentiamo spesso parlare e che non hanno certo risparmiato la sanità, hanno forse accresciuto nel corrente anno il rischio di mortalità in corrispondenza dei gruppi tipicamente più fragili: i vecchi e i "grandi vecchi", più di ogni altro».

Questo è tanto più vero oggi e si deve aggiungere la sciagurata gestione sanitaria e politica della crisi Covid di cui abbiamo parlato molte volte e che ha certamente aggravato, e di molto, il bilancio delle vittime. E tuttora, dopo dieci mesi di crisi, ancora il governo trascura le possibilità di cura per affidarsi tutto al lockdown e alla speranza del vaccino. Il risultato è che, malgrado l’Italia abbia applicato il lockdown più duro e più a lungo, ci troviamo in vetta alla classifica della mortalità da Covid.

Un ultimo aspetto vale almeno la pena citare, riguardo al picco di decessi. Ad anno finito dovrà anche essere considerato l’aumento di morti per cause non-Covid, dovuto alla paralisi ospedaliera legata al coronavirus. A fine ottobre il presidente della Società di cardiologia, Ciro Indolfi, lanciava l’allarme sulla catastrofe sanitaria causata dalla paura di Covid: «Durante la prima ondata della pandemia, i ricoveri ospedalieri di emergenza per infarti e ictus si sono dimezzati per paura del contagio, molte persone sono morte a casa o sono sopravvissute con danni gravi al cuore e al cervello, perché gli eventi cardiovascolari gravi sono ‘tempo-dipendenti’.
La Società Italiana di Cardiologia è stata la prima al mondo a dimostrare durante la pandemia la riduzione di oltre il 50% dei ricoveri cardiologici, accompagnata da un aumento di tre volte della mortalità ospedaliera, dati poi confermati nelle altre nazioni europee e negli Stati Uniti». E anche questo andrà messo sul conto della gestione sanitaria e politica dell’emergenza.