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RUSSIAGATE

Molto fumo e niente arrosto nell'inchiesta su Trump

Il dossier "Russiagate" non si arricchisce affatto con l'arresto di Manafort e Gates, né con la notizia del patteggiamento di Papadopoulos, tutti pezzi grossi della campagna elettorale repubblicana. Fra tutte le accuse il contatto fra Putin e la campagna elettorale non emerge. Si deve attendere e meditare prima di parlar di "nuovo Watergate".

Esteri 01_11_2017
Paul Manafort

Lunedì 30 ottobre, tre generali della squadra che ha gestito la campagna elettorale di Donald J. Trump per le presidenziali del 2016 sono stati arrestati su ordine del procuratore speciale dell’FBI, Robert S. Mueller III, che indaga sul cosiddetto “Russiagate”. È la conferma delle trame russe di Trump. Più o meno, è questo ciò che ripetono i media, ma la realtà è parecchio diversa. La illustrano con tre pezzi di buon vecchio giornalismo Andrew McCarthy, David French e ancora McCarthy su National Review. Però, dirà qualcuno, National Review è di parte. Vero. Ma forse che questo impedisca di dire la verità? No, anzitutto perché anche la verità è di parte; la menzogna, per esempio, la verità non la tollera. In secondo luogo perché il lavoro egregio di McCarthy e French è lì da smentire, se qualcuno riesce.

Cominciamo dai tre arrestati che in realtà sono due, Paul Manafort e Rick Gates; il terzo, infatti, George Papadopoulos, è stato arrestato il 27 luglio all’aeroporto Dulles di Washington, il 5 ottobre si è riconosciuto colpevole davanti al Tribunale distrettuale della capitale federale, ha patteggiato, ma i termini del suo patteggiamento, vecchi di quasi un mese, sono stati resi noti dal procuratore speciale Mueller solo il giorno in cui Manafort e Gates si sono costituiti, gravati da 12 accuse.

Sarà però così perché i tre casi sono collegati. No: Manafort e Gates sono accusati soprattutto di frode fiscale e riciclaggio di denaro, Papadopoulos ha patteggiato per falsa testimonianza. Manafort e Gates erano soci in affari. Facevano i lobbisti per conto di Paesi stranieri. Fra questi, l’Ucraina di Viktor F. Janukovyč, presidente dal 2010 al 2014, filorusso. Tutto legale. Hanno però evitato di registrarsi pubblicamente negli Stati Uniti come agenti stranieri, hanno nascosto il denaro guadagnato con tale attività (sembra 75 milioni di dollari), hanno evaso il fisco e hanno riciclato parte di quel denaro (18 milioni). Lobbisti per l’Ucraina lo sono stati dal 2006 al 2015. A riciclare sarebbero andati avanti fino al 2014. Cioè anni prima che nel marzo 2016, e fino ad agosto, Manafort assumesse la direzione della campagna elettorale di Trump e Gates lo seguisse a stretto contatto. Le loro attività illecite sono dunque precedenti e sono appunto quello che sono: illeciti fiscali e finanziari. La campagna elettorale di Trump non c’entra. Anche perché, quando i loro legami con l’Ucraina cominciarono a sollevare perplessità (i due avevano infatti celato la questione), Trump ne ha, diciamo, accettato le dimissioni, affidando la propria campagna elettorale ai cattolici Stephen K. Bannon e Kellyanne Conway.

Bisogna però continuare a non confondersi. Fare i lobbysti anche per un Paese straniero non viola la legge americana. Anzi. È una professione normale, regolamentata, trasparente. Il problema subentra quando un lobbista pecca di trasparenza, esattamente come è un problema quando qualunque altro professionista pecca di trasparenza. Non viola la legge americana nemmeno il fatto di prendere denari, neanche se sono tanti, per fare il lobbista, e denari stranieri se il lobbista opera per l’interesse di un Paese straniero. Viola invece la legge il lobbista che finge di non esserlo soprattutto per sottrarre le ingenti somme di denaro guadagnate in quel modo agli occhi del fisco. È quello che, dice l’accusa, avrebbero fatto Manafort e Gates (i quali, ha differenza di Papadopoulos, si dichiarano innocenti) non registrandosi pubblicamente come lobbisti in conto all’Ucraina.

Pare del resto che il fatto di non registrarsi pubblicamente come lobbisti accada di frequente. Nessuno però finisce in galera come invece rischiano ora Manafort e Gates (si è parlato addirittura di 80 anni per l’uno e di 50 per l’altro). In casi così si prende un cicchetto e si rimedia. Sulla fedina di Manafort e Gates resta allora solo l’evasione fiscale, per la quale i media gridano alla “cospirazione”. Solo però perché la legge americana chiama genericamente «cospirazione» (conspiracy) il tentativo di due o più persone di danneggiare o frodare gli Stati Uniti, distinguendola però dall’«infrazione» (misdemeanor, e la legge dice che a volte danni e frodi sono in realtà «[...] solo infrazioni»). Adesso: frodare il fisco è un attento contro la sicurezza del Paese in intelligenza con Barbablù o una canagliata riprovevole ma quella è basta? Tant’è che Manafort e Gates sono fuori su cauzione.

E il riciclaggio? Accusa strana. Affinché tale sia, occorre ovviamente che il denaro riciclato sia frutto d’illeciti. Quali, però, se guadagnare denaro come lobbisti di Paesi stranieri non è un reato? Né il denaro lecito diventa illecito solo perché i due percettori lo hanno nascosto al fisco. Prima conclusione: dov’è il “Russiagate”? Non nel “caso Manafort-Gates”, ma nemmeno nel “caso Papadopoulos”. Quest’ultimo ha tramato sì con la Russia, ma non è per questo che è stato arrestato; è stato arrestato perché ha detto le bugie dicendo di non avere tramato con la Russia. O, meglio, di avere voluto ardentemente farlo.

Nel comitato elettorale di Trump, Papadopoulos stava nella sezione esteri, un trentenne con tanta voglia di emergere. Un dì comunica di aver abboccamenti grossi con una gola profonda ricca di segreti inconfessabili su Hillary Clinton, splendidi da usare politicamente: governo russo e migliaia di e-mail. Com’era arrivato a tanto? Non c’era arrivato. Però un non meglio identificato “professore russo” prometteva contatti in alto, addirittura con una parente di Vladimir Putin. Il tutto dopo che Papadopolous era entrato nel comitato elettorale di Trump (marzo 2016), motivo per cui non erano le “aderenze russe” ad avergli fruttato il posto. In seconda fila; se non terza o persino quarta: Papadopoulos non era infatti esattamente un uomo chiave con accesso al nucleo di comando. Per un po’ ha fatto a sportellate per combinare incontri fra “emissari moscoviti” ed entourage trumpiano, magari Trump stesso. Poi tutto si è ammosciato quando gli è stato detto che non era cosa, in primis da Manafort. A Papadopoulos sono restati la sua voglia, “il professore” e una russa rivelatasi tutt’altro che parente di Putin (sembra la storia della “nipote di Mubarak”...).

Seconda conclusione: dov’è il “Russiagate”? Papadopoulos è finito male perché ha giurato all’FBI di non avere tramato coi russi mentre invece aveva “tramato” con “il professore” (e la non-parente di Putin). Da solo.

Certo, nella prossima campagna elettorale Trump dovrà selezionare meglio il proprio personale, ma a chi non è capitato di rimanere turlupinato da amici e parenti insospettabili? Terza e ultima conclusione: dov’è il “Russiagate”? Mentre restiamo pronti e liberi a registrare eventuali fatti nuovi, notiamo il persistere di un antipatico silenzio sull’“Uraniumgate” di Hillary Clinton.