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GERUSALEMME

Medio Oriente, chi erediterà il ruolo di mediatore

Con il riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele, gli Stati Uniti rinunciano anche ufficialmente al loro ruolo di mediatore internazionale per il Medio Oriente. Adesso chi erediterà questa posizione? L'Ue è candidata privilegiata, ma è divisa sul Medio Oriente. La Russia potrebbe subentrarle.

Esteri 11_12_2017
Camp David

Nel migliore dei mondi possibili Gerusalemme sarebbe la capitale di due stati, uno israeliano e uno palestinese, in pace fra loro e riconosciuti da tutti gli altri paesi dentro a frontiere internazionalmente definite e certe. Nel migliore dei mondi possibili Gerusalemme godrebbe di uno statuto speciale che la ponesse sotto tutela internazionale rispettandola come città santa per tre religioni: ebraismo, cristianesimo e islam. Ma non siamo nel migliore dei mondi possibili, e Gerusalemme indivisa è stata dichiarata unilateralmente capitale di Israele dal parlamento israeliano nel 1980, dopo 13 anni di occupazione militare della parte est araba (giordana a quel tempo) a seguito della Guerra dei Sei giorni. Nessun paese del mondo da allora ha riconosciuto questo fatto compiuto, e tutti hanno mantenuto le loro ambasciate a Tel Aviv, città che – e questo è un bel paradosso - Israele non ha mai considerato propria capitale. Nessun paese tranne la Repubblica Ceca e Vanuatu, che hanno preso la loro decisione nel maggio-giugno scorsi in reazione a un voto dell’Unesco che negava a Israele la sovranità su Gerusalemme. Tutti gli altri ambasciatori dei 161 paesi che riconoscono Israele fanno i pendolari fra Tel Aviv e la città santa se devono incontrare diplomatici o funzionari del ministero degli Esteri israeliano.

Gli Stati Uniti, per parte loro, hanno approvato con una legge del Congresso il trasferimento della loro ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme prima di tutti gli altri paesi, già nel 1995, ma non l’hanno poi tradotta nei fatti. Gli ultimi quattro presidenti degli Usa – Bill Clinton, G.W. Bush, Barack Obama e Donald Trump - nel corso delle loro campagne elettorali hanno promesso agli elettori di trasferire effettivamente l’ambasciata se eletti; di essi solo Trump sembra sul punto di mantenere la promessa. Perché non lo hanno fatto i suoi predecessori? La motivazione ufficiale è che hanno voluto salvaguardare il processo negoziale fra israeliani e palestinesi e il ruolo di mediatori degli Usa in tale contesto. Motivazione altamente ipocrita: gli Stati Uniti non si sono mai veramente comportati come una parte terza fra israeliani e palestinesi, hanno nei fatti favorito lo status quo politico-militare favorevole ad Israele che si è creato attraverso le tre guerre arabo-israeliane (1948, 1967, 1973). Hanno agito badando a non inimicarsi gli israeliani, volàno delle loro politiche in Medio Oriente, e senza badare alle proteste diplomatiche o di altra natura dei palestinesi.

A Donald Trump, che ora agisce in contrasto con risoluzioni dell’Onu e norme di diritto internazionale, va riconosciuto almeno il merito di avere chiamato il bluff, di avere smascherato l’ipocrisia dei suoi predecessori. L’ultima volta che gli Usa hanno seriamente cercato di mediare fra israeliani e palestinesi è stato nell’estate del 2000 a Camp David, quando Ehud Barak offrì ad Arafat di restituire ai palestinesi il 92 per cento dei Territori Occupati perché lì potessero creare il loro stato, e quest’ultimo rifiutò.

Trump – se terrà fede alle sue parole, e non prevarrà la linea prudente del suo segretario di Stato Rex Tillerson che assomiglia a una vera e propria retromarcia- ha messo fine alla finzione di un processo di pace sotto la guida degli Stati Uniti. Mahmoud Abbas ha ragione quando dice: ora gli Stati Uniti non sono più mediatori ma parte in causa nel conflitto, come alleati degli israeliani. Ha torto però a non averlo detto prima, e a non avere agito di conseguenza. E qui si apre il discorso sulle novità che la mossa di Trump introduce. La nuova fase inaugurata dalla decisione del presidente americano non apre la porta solo a rischi di destabilizzazione e di caos regionale, ma anche a opportunità che si sarebbero dovute cogliere molto tempo fa. Il ruolo del mediatore fra israeliani e palestinesi è ora vacante. Non possono rivendicarlo quei paesi che hanno duramente condannato la mossa americana (Lega Araba, Iran, Turchia), ma possono aspirarvi quelli che hanno moderato il linguaggio, e hanno espresso “disaccordo” (Emmanuel Macron), “seria preoccupazione” (Federica Mogherini) o “profonda preoccupazione” (Vladimir Putin).

Unione Europea e Russia possono aspirare a ricoprire il ruolo lasciato libero dagli americani, e questa potrebbe ben presto diventare una competizione, perché ovviamente chi si accaparra il ruolo lo userà anche per far progredire i propri interessi, come hanno fatto piuttosto maldestramente gli americani per un quarto di secolo. In passato la Ue ha rivendicato più volte un ruolo, ha fatto parte del Quartetto (Onu, Usa, Russia e Ue) creato a Madrid nel 2002 per catalizzare energie per la pace, defunto nel 2015 dopo che il suo rappresentante speciale Tony Blair ha rassegnato le dimissioni. La Ue dentro al Quartetto non ha mai combinato nulla di buono e importante per due motivi: non ha avuto il coraggio di prendere posizioni diverse da quelle dell’alleato americano in momenti cruciali e non ha avuto la capacità, come spesso gli accade, di fare una sintesi degli interessi dei diversi paesi che sono membri dell’Unione. Ora che il primo motivo è venuto in qualche modo meno, o Bruxelles si occupa di risolvere il secondo oppure si permette ai singoli paesi europei di condurre la politica per loro più conveniente. Per i paesi che si affacciano sul Mediterraneo (Italia, Francia, Spagna, Grecia) è ovvio e naturale continuare con lo status quo dell’ambasciata a Tel Aviv, perché il loro interesse è di avere buoni rapporti anche coi paesi arabi, e se la Ue non è capace di svolgere un ruolo sintetico di mediazione possono essere loro a farsene carico come singoli o in consorzio (così magari si eviterebbero catastrofi made in France come in Libia).

Altrettanto normale sarebbe che i paesi dell’Europa orientale si mettessero sulla scia di Trump, anzi della Repubblica Ceca, che è stata il primo paese al mondo in ordine di tempo a spostare l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme: non ospitano immigrati o rifugiati arabi o musulmani, non hanno responsabilità storiche colonialiste, non dipendono per i rifornimenti energetici dal mondo arabo o dalla Turchia, hanno qualcosa da farsi perdonare sul terreno dell’antisemitismo. Volendo essere realisti e disincantati, la prospettiva più probabile per quanto riguarda l’Europa è proprio quella che si proceda in ordine sparso. Lasciando alla Russia la possibilità di impadronirsi del ruolo negoziale.

Varie ipotesi si sono fatte sulle ragioni che hanno spinto Trump a decidere l’attuazione del provvedimento nei confronti del quale i suoi predecessori avevano esercitato solo quello che gli anglosassoni chiamano “lip service”, cioè “sostegno a parole”. Certamente il presidente vuole fidelizzare l’elettorato protestante filo-sionista che lo ha sostenuto e garantirsi appoggi nel mondo ebraico, in maggioranza pro-Hillary Clinton in occasione delle presidenziali del 2016 (71 per cento secondo il Pew Research Institute), soprattutto in vista di tentativi di impeachment legati al Russia-gate. Ma potrebbe esserci anche una motivazione legata a grandi manovre geopolitiche: da mesi si inseguono le notizie di una santa alleanza fra Usa, Israele e Arabia Saudita in funzione anti-iraniana, che debutterebbe con una campagna militare in Libano mirata alla distruzione di Hezbollah, testa di ponte di Teheran ai confini israeliani. Apparentemente la mossa di Trump sembra segnare una battuta di arresto del progetto: l’Arabia Saudita ha dovuto inevitabilmente prendere le distanze da un atto politico che promuove gli interessi israeliani e danneggia quelli palestinesi. Le cose però potrebbero stare in modo diverso. Può darsi che Netanyahu abbia condizionato un’azione militare israeliana ad alcune contropartite, fra le quali il trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. Il peso delle perdite umane e materiali di una nuova guerra su suolo libanese, come quella che nel 2006 vide scontrarsi le forze israeliane e quelle di Hezbollah, ricadrebbe quasi interamente su Israele, mentre i maggiori vantaggi strategici ricadrebbero su Arabia Saudita e Stati Uniti. Logico dunque che gli israeliani chiedano contropartite importanti per stare al gioco. Se questa ipotesi è verosimile, urge più che mai un intervento diplomatico della Ue e della Russia, volto a prevenire una catastrofe umanitaria e politica.