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FARHAD BITANI

L'ultimo lenzuolo bianco di un afgano che non si arrende

L’Afghanistan è di nuovo in mano ai talebani, cacciati dagli occidentali nel 2001. Così vent’anni dopo, con la repentina presa di Kabul del 15 agosto, ritornano la violenza, l’ignoranza e il terrore che solo il cuore dell’uomo può sconfiggere. La rilettura de L’ultimo lenzuolo bianco di Farhad Bitani (di  cui abbiamo già scritto al momento dell’uscita) si rivela così ancora di estrema attualità e ci aiuta a capire cosa significa vivere in un Paese dilaniato dai conflitti etnici e dominato dalla crudeltà di chi, in nome di Dio, commette le più terribili atrocità.

- VIA DALL'AFGHANISTAN di Rino Cammilleri

Cultura 24_08_2021
Farhad Bitani

Abbiamo ancora tutti negli occhi l’immagine terribile e commovente delle mamme afgane che cercano di affidare i loro bambini ai soldati americani, oltre il filo spinato: vogliono imbarcarli su uno qualunque degli aerei, carichi di profughi, che lasciano la loro terra martoriata. Il coraggio di queste madri è lo stesso della mamma di Farhad Bitani, autore de L’ultimo lenzuolo bianco (ripubblicato nel 2020 da Neri Pozza e di cui abbiamo già parlato al momento della prima edizione), che ha fatto sempre leva sul cuore del suo ragazzo, perché potesse ritrovare in sé l’umanità nascosta dalla corruzione dei mujaheddin, conosciuta nella sua infanzia, e poi dalla violenta dittatura talebana.

Prima di abbandonare la sua patria per chiedere asilo in Italia nel 2012 Farhad, oggi 34enne, ha visto nel suo Paese, con gli occhi di bambino e poi di giovane uomo, i danni terribili del fondamentalismo. All’inizio si è trovato di fronte all’arroganza dei mujaheddin, a fianco  dei quali ha vissuto per le strade polverose di Kabul. Figlio di un potente generale che aveva sconfitto i sovietici penetrati in Afghanistan nel 1979, si è trovato immerso in agi, ricchezza e privilegi. Ma quando sono arrivati i talebani (e suo padre è finito in carcere) è arrivata la dura povertà, la fame e il disprezzo degli esseri umani. Tutto nel nome di Dio.  

Così Farhad ha cominciato a capire che talebani e mujaheddin sono fondamentalisti.  Infatti “perseguitano la povera gente, assegnando il titolo di infedele a chiunque non accetti di sottostare ai loro soprusi”. Ma lui “era diverso”, come gli diceva sua madre quando lo vedeva triste per la violenza terribile che lo circondava. Cresceva infatti tra soldati corrotti che gli regalavano i proiettili delle armi per giocare, perché era figlio di un importante generale, purché tacesse sulle loro scandalose violenze su donne e bambini; o assisteva nello stadio di Kabul alla lapidazione delle  donne che avevano osato parlare a un uomo, o al taglio della mano di poveracci trasformati in ladri, che rubavano per sfamare i figli macilenti. Immagini indelebili che trasformavano le sue notti in incubi. Solo la mamma sapeva consolarlo. Tutti compivano atti malvagi, disumani. E anche il futuro scrittore voleva diventare un combattente, imbracciare le armi con onore, avere un seguito, una scorta. Non pensava ai buoni e ai cattivi. C’era soltanto la vittoria sui nemici, contava solo quella. La madre però, con piccoli gesti quotidiani di generosità e delicatezza per i più poveri, gli mostrava che c’era un altro modo di guardare gli altri, di essere amici, umani. Parlandogli con dolcezza in quel mondo pervaso dal disprezzo per la vita.

“Non esiste il buono o il cattivo, Farhad. Esiste il cuore dell’uomo. E se anche il cuore più buono dovesse diventare nero a causa della violenza che hai vissuto, ricorda, c’è sempre un punto bianco in esso. Quel punto bianco che permette all’uomo di recuperare la sua bontà”. Queste le parole della mamma. Saggezza e profondità di una umile e coraggiosa donna afgana, che ha permesso a suo figlio di ritrovare se stesso, al punto di fargli affermare, adesso che vive da esule a Torino: ”Soltanto la verità può liberare il mio Paese”. E lo dice oggi che rivive quanto ha già visto nel 1996, quando ha assistito alla medesima scena: i talebani che si impadronivano di Kabul entrando nella città sventolando le loro spettrali bandiere bianche. Con una differenza fondamentale però. “A quei tempi i talebani non erano abili sfruttatori dei media, di internet, e soprattutto non avevano la forza di oggi. Ma la violenza e le loro false promesse sono le stesse”. Ora possiedono armi all’avanguardia (comprese quelle che le truppe americane hanno malauguratamente lasciato nel loro ritiro precipitoso). E sanno manipolare la Rete e i social network. Infatti i giovani afghani che vorrebbero documentare le malefatte del nuovo potere si stanno affrettando a cancellare le loro identità digitali per non farsi catturare e uccidere.

Quando ho scritto il mio libro volevo che la verità sul mio Paese venisse fuori, che le persone sapessero cosa può fare a un essere umano, a un’anima, a un corpo, crescere sotto i fondamentalisti”. Questa la convinzione profonda di Bitani, che ha trovato in Italia una seconda patria. È per questo che è utile leggere o rileggere L’ultimo lenzuolo bianco, perché per molti aspetti si rivela profetico e ci permette di capire meglio il destino di un popolo per noi così diverso. Le parole di Farhad Bitani sono dure: “Io sono cresciuto tra le violenze e le torture di questi uomini, ho visto il vero volto dei talebani ed è quello del male. Gli americani sanno benissimo quello che stanno lasciando… Ma non hanno mai lavorato veramente sulla cultura, sulle persone, sull’educazione”.

I talebani stanno ingannando il mondo con il loro (presunto) nuovo volto da “fondamentalisti 2.0”. Ovviamente lo scrittore non condivide l’ingenuità di chi, come Conte e Prodi, crede di poter tranquillamente dialogare con il nuovo potere afgano. Si dovrà al più provare a “trattare” per ottenere almeno alcune modifiche alla dura legge islamica, la sharia, pensando soprattutto alle donne e all’istruzione dei bambini. Tra l’altro l’ex combattente si rende conto perfettamente che non si possono accogliere schiere di profughi in Italia e in Europa senza un progetto adeguato. Per non generare caos e nuova disperazione e per scongiurare l’ingresso di terroristi infiltrati. Insomma, il richiamo da parte di Farhad è chiaro: “L’eccesso di buonismo in una situazione come questa è dannoso e pericoloso”. Accoglienza dunque, ma accompagnata a un’educazione alla verità, unica premessa  per una vera integrazione. Anche se abbiamo capito che ormai il destino dell’Afghanistan non interessa più all’America e purtroppo l’Europa conta ben poco. I nuovi protagonisti in quello scacchiere dell’Asia sono altri: Cina, Russia, Arabia Saudita e Pakistan si contendono già il bottino. E questo, a dir la verità, non ci tranquillizza affatto. Ma sappiamo che  anche per quel popolo, come per ogni uomo, il cuore  può vincere la paura, la violenza e il male. E conserviamo la speranza di una nuova pace e armonia, soprattutto se gli afghani riusciranno a far crescere quel fragile germoglio di libertà e partecipazione che hanno sperimentato negli anni della protezione occidentale.