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IN VIAGGIO CON ENEA/ 6

L’inganno del cavallo e la tragica morte di Laocoonte

Invitato a parlare dalla regina Didone, Enea ripercorre con grande pena (in un racconto che ispirerà Dante) le vicende che hanno portato i Troiani a fidarsi dei Greci e del loro dono. Tra i pochi a non ingannarsi, Laocoonte. La cui tragica fine, insieme a due suoi figli, rappresenta al contempo il dolore di un padre e la solitudine dell’eroe che invano si contrappone a forze superiori.

Cultura 07_11_2021
Gruppo del Laocoonte_ Musei Vaticani

Il secondo libro dell’Eneide è uno dei più noti, una breve Iliade in tono virgiliano affidata al racconto di Enea che è stato invitato a parlare dalla regina Didone alla fine del primo libro. E così l’eroe troiano esordisce, mentre tutti tacciono protesi con estrema attenzione alle parole che saranno pronunciate. Non saranno poche, perché il racconto si dispiegherà per due interi libri, dalla guerra contro i Greci fino all’arrivo dei Troiani a Cartagine.

I versi latini «Infandum, regina, iubes renovare dolorem» ovvero «Tu vuoi, regina, ch’io rinovelli un ripugnante dolore» saranno ripresi dal conte Ugolino, invitato da Dante a parlare con la promessa che, se il dannato sta rodendo a buon diritto il capo dell’altra anima, il fiorentino quando tornerà sulla Terra racconterà il torto che il conte ha subito. E così Ugolino esordisce: «Tu vuo’ ch’io rinovelli/ disperato dolor che ‘l cor mi preme/ già pur pensando, pria ch’io ne favelli». L’anima proseguirà poi con altre parole di sofferenza riprese questa volta dal racconto di Francesca del Canto V: «Se le mie parole esser dien seme/ che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo,/ parlare e lagrimar vedrai insieme».  Ma anche in questo caso sentiamo un richiamo al racconto di Enea alle «infamie» che hanno visto i suoi occhi: «Chi mai nel darne conto/ […] tratterrebbe le lacrime?».

Se la regina cartaginese desidera tanto conoscere le sventure dei Troiani e «l’estrema agonia di Troia», Enea non può astenersi dal raccontare, proprio come Francesca che risponde a Dante che vuole conoscere quando lei e il cognato Paolo hanno accantonato ogni ritrosia e si sono baciati:

Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.

Potremmo continuare ancora in questo gioco di ripresa da parte di Dante del capolavoro virgiliano. Non lo facciamo, perché non è il nostro fine. Ricordiamo solo che il magistero virgiliano rimane molto influente fino al canto XXX del Purgatorio quando Dante incontra Beatrice e si volge verso il maestro per constatare, però, che Virgilio lo ha ormai abbandonato.

Come ha dimostrato l’autorevole studioso americano Robert Hollander (recentemente scomparso) in Le opere di Virgilio nella Commedia di Dante, vi sono 310 riferimenti sicuri o probabili al poema virgiliano nell’opera dantesca. La loro presenza diminuisce nel passaggio dalla prima alla terza cantica, come verifica David Scott Wilson-Okamura: 180 riferimenti nell’Inferno, 80 nel Purgatorio e 50 nel Paradiso. Forse si comprende meglio perché Dante, quando incontra Virgilio nella selva oscura, così si esprime:

O de li altri poeti onore e lume,
vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore
che m’ ha fatto cercar lo tuo volume.
Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore,
tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
lo bello stilo che m’ ha fatto onore

La grande letteratura non muore mai, entra nella memoria universale, vive come sorgente continua di altre opere che si richiamano al passato innovandolo.

Ritorniamo al racconto di Enea. I Greci ordiscono il tranello del cavallo, costruito in legno di abete, ricolmo di combattenti estratti a sorte tra i migliori. Lo lasciano sulla spiaggia e fingono di partire, mentre in realtà si nascondono nell’isola di Tenedo. I Troiani, gioiosi, escono finalmente dalle porte della città, vanno visitando l’accampamento greco ormai abbandonato, i luoghi delle battaglie. Alla vista del cavallo qualcuno propone di portarlo sulla rocca, altri consiglia di gettare in mare quel dono sospetto. Ecco che Laocoonte, sacerdote di Nettuno, mette in guardia i Troiani dalle furbizie di Ulisse:

            Poveri cittadini, cos’è questa pazzia?

            Credete partito il nemico? Potete immaginare un regalo

            dei Danai senza un trucco? Così conoscete Ulisse?

            O appostati dentro questo legno si nascondono Achei,

            o la macchina è fabbricata contro le nostre mura

            per spiare le case e incombere sulla nostra città,

            o cela qualche altro raggiro: non fidatevi del cavallo, Troiani!

            Comunque, i Danai io li temo anche se portano doni!

Pronunciate queste parole, Laocoonte prende un giavellotto e lo scaglia contro il fianco del ventre. «Rintronano le vuote caverne del ventre e mettono un gemito». Amaramente Enea constata che se avessero violato il cavallo, lo avessero ispezionato, l’alta rocca di Priamo ci sarebbe ancora.  

Poco dopo viene condotto alle porte di Troia un prigioniero greco, è Sinone. Mentendo, persuade i Troiani che, se porteranno all’interno delle mura della città il cavallo, la rocca diventerà inespugnabile per sempre e l’Asia conquisterà la Grecia. Se, invece, i Troiani si macchieranno dell’azione nefasta di distruggere il cavallo, «offerta destinata a Minerva», «un’enorme catastrofe» («magnum exitium») piomberà sul regno di Priamo. Dopo che Sinone ha parlato, accade un «evento spaventevole». Mentre Laocoonte sta immolando un toro enorme sulle are, dalle acque tranquille sorgono «due serpenti con spire mostruose» e puntano verso la riva. La rappresentazione è teatrale, cinematografica ante litteram:

            i petti inalberati [del serpente] tra i flutti e le creste sanguigne

            sovrastan l’onde; il resto scivola dietro radendo

            l’acqua […].

            A vederli fuggiamo sbiancati. E quelli puntano dritti

            su Laocoonte; ma prima l’uno e l’altro serpente avviluppa

            i piccoli corpi di due figli di lui, li stritola,

            e a morsi si ingozza di quelle misere carni.

Poi, i serpenti avviluppano anche il padre Laocoonte che sta giungendo in soccorso dei figli con le armi in pugno. Stringono il collo del sacerdote con le loro spire e «lo sovrastano eretti di tutta la testa». Invano, Laocoonte cerca di sciogliere i nodi con le mani, levando «alle stelle un orrendo schiamazzo». Indisturbati, i serpenti si allontanano, fermandosi ai piedi della statua della dea Minerva. I Troiani si convincono che il sacerdote ha espiato il tremendo delitto di aver osato scagliare il giavellotto contro il dono di Minerva.

La tragedia di Laocoonte per il lettore romano è da un lato l’estremo dolore di un padre che muore, dopo aver assistito inerte alla morte dei figli, dall’altro la solitudine dell’eroe che invano si contrappone a forze superiori, mentre tutti gli altri si allontanano, impassibili e senza opporsi all’ineluttabile destino. La storia dell’eroe troiano sarà resa immortale, oltre che dai versi di Virgilio, dal gruppo scultoreo degli artisti Agesandro, Polidoro e Atenodoro (I secolo a. C.), che si trova ai Musei Vaticani: il padre al centro, a lato i figli già avvolti dalle spire del serpente, invano imploranti aiuto.